La terapia in azione

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La terapia in azione

Pubblicato in: Qui e ora, Rivista di Gestalt – Anno I/II n. 2-3 – Cagliari, 1993

“Le decisioni esistenziali e la conseguente scelta diretta verso specifici tipi caratteriali sono strettamente conseguenti alle elaborazioni cognitive che il bambino fa per dare un significato ed una spiegazione al conflitto inevitabile che si instaura tra il mondo dei suoi bisogni, gli impedimenti ambientali e le sue personali e naturali limitazioni interne.”

Introduzione alle difficoltà

Da alcuni giorni era ossessionata dal continuo affiorare di un’immagine che le procurava disagio: uno stato d’animo “indecifrabile”.

Aveva intuito che si riferiva ad esperienze del passato e temeva che potessero emergere vissuti “dolorosi e intollerabili”.

La scena antica di un giardino, bello, la fontana con i pesciolini, lei piccola seduta a terra con le braccia conserte. Il giardino avvolto in un’atmosfera immobile, l’immagine nitida. Tutto è fermo, bello ed estremamente freddo. Nei ricordi, come nei sogni e nelle fantasie, ciò che manca assume particolare valore ed offre una traccia per le successive elaborazioni. Nella scena manca calore.

  1. ha iniziato la terapia da alcuni mesi. In questa fase sta lavorando sulla difficoltà che vive nelle relazioni: si pone come una brava “bambina”, dà più del necessario e si aspetta un premio che poi non arriva. Alla fine prova delusione e rabbia. Comprende che ha fondato il suo benessere su un’illusione: “se mi comporterò bene e sarò utile mi daranno di più”. Ma il comprenderlo non è sufficiente a colmare la carenza. Vuole uscire dalla trappola, un meccanismo ripetitivo che ormai le è diventato intollerabile: ma anche se lo sa, non vede ancora la via.

 

La prima fase della terapia: obiettivi e mete

La terapia in questa prima fase è focalizzata su mete e obiettivi specifici. Lo scopo è di attivare la responsabilità del paziente rendendolo protagonista del processo terapeutico. ln tal modo viene scoraggiata l’attitudine passiva e dipendente, alimentata dalla fantasia di un terapeuta “salvatore” che, in virtù della sua conoscenza e della sua “speciale umanità”, darà guarigione. Fin dall’inizio viene chiarito, anche se male accettato, che il “cambiamento” non viene offerto, ma è il risultato di un processo durante il quale il paziente è parte attiva, artefice principale dei suoi fallimenti e dei suoi successi. Inoltre avere delle mete contrattualmente definite offre una possibilità di verifica dei risultati che rinforza la fiducia e la motivazione al cambiamento, quando arrivano i primi, anche se piccoli, riscontri a seguito di verifiche personali o di feed-back ricevuti da altri.

“Nel definire il rapporto terapeutico il principio contrattuale dell’Analisi Transazionale integra, con le sue procedure tecniche, la filosofia gestaltica dell’auto-appoggio e sostiene il pensiero di F. Perls sui limiti della libera associazione. Naturalmente la libera associazione, attuata con modalità gestaltica, risulterà estremamente produttiva per aprire alla consapevolezza non solo quanto è nascosto ma anche nuove aree di esperienza. L’alternanza di libera associazione e concentrazione offre uno strumento di lavoro ricco ed efficace.

 

I tratti della paziente

Per comprendere meglio il lavoro con L., voglio sottolineare che la sua patologia, pur essendo abbastanza profonda, le permette un buon contatto con la realtà e quindi sufficiente controllo, senza rischi di tipo regressivo. Questo mi ha consentito di trattare in diversi momenti con aspetti emotivi repressi che sarebbe controindicato “risvegliare” in altre situazioni patologiche.

L. sperimenta molto dolore quando contatta la sfera emotiva e la sua capacità “adulta” è sufficientemente attiva e le consente di elaborare ed integrare l’esperienza. Solo da poco si è stabilita una buona alleanza con il terapeuta. Oltre ad affidarsi incomincia ad idealizzarlo e proietta su di lui un’immagine di padre ideale che sognò e mai ebbe nella realtà. L’idealizzazione del padre, vissuta attraverso la figura del terapeuta, è un aspetto importante nel processo di cambiamento.

È una prima fase nella quale il paziente intravede la possibilità, anche se ancora non sua, di un’esistenza più soddisfacente: avere un modello di riferimento accresce la motivazione. Via via che farà suo quanto proietta, l’idealizzazione rientrerà in confini più realistici ed il paziente avrà acquistato maggiore autonomia e senso di sè. La terapia, e quindi l’incontro con il terapeuta, propone un riapprendimento e questo avviene anche attraverso l’integrazione di un modello genitoriale più sano, più congruente, più assertivo, con il quale è possibile instaurare una relazione non più complementare e neanche concordante, in entrambi i casi simbiotica e quindi confluente, ma orientata all’lO-TU.

 

La prima “interruzione” della terapia

Tornando al caso in esame. La terapia è iniziata con diffidenza, la paziente sentiva di averne bisogno ma non dava valore al “sostegno” che poteva ricevere dal terapeuta, dubitava che le potesse dare “aiuto”. Qui emerge la prima significativa interruzione causata dalla confusione tra terapeuta che aiuta e terapeuta che sostiene derivante dal non comprendere la differenza tra la pretesa del “bambino” che si rivolge ad un genitore, e la consapevolezza “adulta” di chi utilizza il terapeuta perché gli offre strumenti di crescita.

Nel caso di L. questa difficoltà era sostenuta più profondamente da una decisione antica di negare i propri bisogni e sulla convinzione di non potersi affidare ad un uomo. Che avesse un’attitudine a non volermi riconoscere fu abbastanza chiaro quando, a seguito di specifica domanda, riferì che le erano tornate le mestruazioni che per un lungo periodo erano scomparse. Avevamo lavorato su questo tema in una delle prime sedute e soltanto ora scoprivo che, alcuni giorni dopo, il sintomo era scomparso. Vissi la mancata spontanea comunicazione come un rifiuto o a “darmi il merito”. Defletteva lo sguardo e si ricomponeva mentre me ne parlava. Si ridava un assetto, un contegno, si sarebbe sentita sminuita nel darmi il riconoscimento che implicitamente mi attribuiva. Questo ed altri comportamenti similari mi suggerirono che tenesse molto a non mostrarsi in difficoltà.

 

L’immagine del terapeuta e la costruzione di un’alleanza terapeutica

Buona, brava bambina e piena di orgoglio. Elaborando il mio disappunto potei comprendere il suo comportamento e riferirlo ad una proiezione su me di un’immagine paterna che, mi confermò, vive come poco presente e poco affidabile. Ne trassi la conclusione che il messaggio implicito nel suo comportamento era del tipo “fammi prima vedere chi sei e cosa sai fare, non posso tollerare altre delusioni“.

Si poneva il problema di come costruire una maggiore alleanza terapeutica. Non accettai quella che avevo immaginato una sfida, un gancio, che se avessi raccolto, mi avrebbe portato ad un’improduttiva competizione. Sorvolai su tutto ciò e continuai il lavoro da una posizione accettante e rassicurante, mostrandomi contento per la remissione del sintomo anche se troppo precocemente scomparso. Infatti, in seguito, si ripresentò. D’altro lato non vivevo la mia attitudine come sforzo, mi sentivo bene nel farlo. Scelsi consapevolmente una posizione di genitore protettivo e, come spesso accade con personalità schive o ribelli, quanto meno ero esigente tanto più L. si apriva e si affidava.

La scena del giardino rappresentò uno stimolo rilevante per elaborare aspetti importanti del suo copione. Non lo ricordava ormai da anni quel luogo, non ci aveva più pensato e come Gestalt ancora aperta, all’improvviso era comparsa dallo sfondo. Fu lei a definire importante l’immagine, anche se non sapeva perché. “Mi compare all’improvviso e mi inquieta”. L’immobilità delle cose, la limpida e tersa bellezza dell’ambiente, l’assenza di figure umane oltre la sua, anch’essa immobile, mi colpirono e fui impressionato dalla totale mancanza di affettività. Dietro il giardino immobile, si nascondeva un pezzo importante della storia di L.

 

L’evoluzione della terapia

Nel tempo si è adattata assumendo il ruolo di brava bambina obbediente e disponibile, pronta a dare e a non chiedere per sé. Tuttavia è insofferente alle tante regole e abitudini alle quali si sente “costretta”, ma mai sufficientemente ribelle per esplodere e dire “No”. Un bel “No” chiaro che le permetta di acquistare autonomia senza sentirsi in colpa per avere bisogni e desideri che contrastano con quanto le danno e con quanto le chiedono.

Le propongo di mettere vita in quella scena. All’inizio non comprende le sembra impossibile. Scattano le difese, la bambina interna intuisce che mettere vita in quel deserto emotivo avrebbe implicato un coinvolgimento profondo e tende a non capire le richieste o a ritenere impossibile farlo. Il meccanismo interruttivo operante è la deflessione.

Evita il contatto.

Si deflette per non avere la consapevolezza di qualcosa che ci fa male. Colpa, dolore, rabbia o, in senso più ampio, perché il messaggio inviato, in questo caso l’invito del terapeuta a contatto con l’esperienza, turba il sistema di riferimento interno costruito sulle decisioni esistenziali. Crollerebbe l’immagine di sé costruita attraverso l’adattamento con il quale si è identificata, ritenendolo unico Sé possibile.

Il messaggio implicito che riceve L. è di stabilire il contatto con le emozioni che sono nascoste dietro la nitida perfezione delle immagini. Se le emozioni sono evitate e tenute sullo sfondo o tanto rinnegate da non poter essere non solo espresse, ma neanche affacciarsi alla coscienza, questo avviene perché sistemi difensivi che tendono a respingere il rischio, reale o presunto, di sentire minacciare la propria sopravvivenza o il bisogno di essere riconosciuti.

 

La deflessione della paziente come modalità di interruzione

Le domande del terapeuta tendono a favorire la consapevolezza e quindi la paziente svia, deflette, reagisce agli stimoli con risposte che dirigono verso un territorio meno ansiogeno.

La deflessione come meccanismo di difesa, o modalità di interruzione del contatto non è diversa, nel suo aspetto relazionale, dalle transazioni di ridefinizione dell’Analisi Transazionale. È anche la modalità di interruzione più evidente, quella che il terapeuta può osservare direttamente nei messaggi verbali e non verbali in risposta ai suoi stimoli e che offre il primo spunto per l’ulteriore elaborazione dei contenuti più complessi.

Gradualmente, con voce sommessa, L. incomincia a descrivere l’ambiente. Il tono è piatto e monotono. Spontaneamente dal giardino si sposta verso un interno, la stanza dell’asilo e “suor R. vuole che studio” comincia a bisbigliare “non ti devi sporcare, non devi correre su e giù. Lei è grande, è tutta nera..” All’improvviso scoppia in lacrime e, trattenendo i pugni, con voce soffocata: “lo la odio, mi opprime, mi sento oppressa, sopporto… senza fare niente, io… mi è facile provare tenerezza per quella bambina se non sono io”.

Entra in contatto con sentimenti repressi, sale il livello di energia ma non lo accetta pienamente. La negazione e iper-adattamento le hanno tolto la possibilità di reclamare alcunché per se stessa. Negandosi i bisogni non utilizza l’energia verso l’esterno e impara a retroflettere trattenendo le emozioni. Si inventa un ruolo attraverso il quale vive l’illusione che se ‘offre’ qualcosa verrà ripagata, gli altri sentiranno gratitudine per lei.

Rivisitando la scena, gradualmente, L. si scioglie e diventa più disponibile alle domande dirette a far emergere le emozioni naturali, repressa e trattenuta dietro il suo adattamento. Risperimentare l’antico sentimento escluso dalla coscienza le permette di focalizzare il bisogno represso, la gestalt ancora aperta che chiede soddisfazione. “Sento rabbia… voglio essere abbracciata… presa in braccio”. Ora singhiozza, la carenza diventa più specifica.

Stacca il contatto con quanto sta vivendo e come per integrare ulteriormente, con un rinforzo cognitivo, riferisce: “Conosco una bambina che mi sconcerta; sta seduta come stavo seduta io… lei è tutta brava, come me…facevo tutte le recite, facevo tutto io… ora mi rivedo in lei…mi fa molto male tornare a tutto questo, mi sento esplodere”. Rispecchiandosi vede più chiara la drammaticità della sua rinuncia. “Quanto impegno per così poco risultato” commenta il terapeuta, offrendo un ulteriore appoggio per facilitare l’uscita dal blocco e dall’illusione che lo sostiene.

 

Un significato diverso degli eventi passati

Attraverso la procedura regressiva rivive un passato ancora presente nel suo corpo che trattiene, nella carenza di rapporti affettivi caldi e significativi, nella costruzione di un personaggio, di un ruolo che poggia sull’orgoglio, sul farsi leader, necessaria e utile, sull’illusione che così sarà ripagata dalla gratitudine degli altri e che, in questo modo, anche lei avrà un suo spazio. Andando dietro all’adattamento, il racket che porta avanti ancor oggi, ristabilisce il contatto con i sentimenti naturali che aveva ripudiato, di dolore e di rabbia per non aver ricevuto l’unica cosa di cui aveva bisogno e per aver così duramente pagato ‘in obbedienza‘ nel tentativo di ottenere un ‘segno di riconoscimento‘, surrogato ben meschino e tuttavia vitale, almeno qualcosa in cambio dell’amore, delle carezze e degli abbracci che desiderava.

Ora che il contatto è stabilito, è utile riportare all’oggi, alla realtà attuale, quanto del suo passato è ancora attivo. L’ipotesi è che ripropone sotto diverse forme e in altre situazioni, utilizzando gli stessi processi sia cognitivi che emotivi, quanto apprese e adottate in passato per sopravvivere ed avere riconoscimento, i due principi di base che determinano il tipo di adattamento che il bambino assumerà nell’ambiente in cui vive. Le decisioni esistenziali e la conseguente scelta diretta verso specifici tipi caratteriali, sono strettamente conseguenti alle elaborazioni cognitive che il bambino fa per dare un significato ed una spiegazione al conflitto inevitabile che si instaura tra il mondo dei suoi bisogni, gli impedimenti ambientali e le sue personali e naturali limitazioni interne.

Come fare oggi…mi sento avvilita”. La passività di base, trasformata in apparente disponibilità, è retaggio dell’antica obbedienza aggravata dal tratto orgoglioso che le dà un’illusione di potere. Oggi gli equilibri sono rotti, all’immagine di sé socialmente vincente, subentra una profonda insoddisfazione: “Non voglio lavorare, non mi sta bene niente”.

È consapevole che i suoi bisogni sono altri da quelli che si è imposta di avere, ma li conosce poco e non sa come fare: si sente disperata. La svalutazione originaria dei bisogni elementari che il mondo esterno, la scuola, la famiglia, non le riconobbero, oggi sono ingiunzioni interne, di messaggi introiettati che sono parte della sua personalità e, come tali, difficili da mettere fuori da sé. Pensa e agisce influenzata da messaggi automatici dei quali non riconosce l’estraneità.

Ciò che veniva provocato dall’estremo, oggi viene alimentato dall’interno: il mondo del fuori e quello del dentro si sono unificati producendo una simbiosi. La coppia parentale introiettata agisce inconsapevolmente e ad L. sembra di continuare a vivere esperienze che le fanno male “pur se non vuole“.

Non trova alternative.

Non devi, non hai il diritto, non fare, non essere… Il peso dell’introiezione le impedisce di focalizzare l’oggetto dei bisogni. Non distingue ciò che è suo da ciò che appartiene all’altro. Quello che lei vuole da quello che gli altri vogliono. E quando lo percepisce vive sentimenti di colpa che bloccano ogni tentativo di “volere quello che vuole”. “Adesso sto male e mia madre si preoccupa e ora mi scoccio di non farla preoccupare“. La rabbia prende il sopravvento sul senso di colpa. È un sentimento più adeguato per uscire dalla passività e assumersi, ora, la responsabilità delle sue scelte. “Ora voglio che si preoccupi, per tutta la vita non l’ho fatta preoccupare”. Si riappropria del diritto ad avere attenzione e cure, diritto che aveva negato attraverso una presunta e compensatoria autosufficienza.

È utile a questo punto canalizzare l’energia che va recuperando e indirizzare “la bambina” che ancora non conosce la misura. Contattare l’emozione repressa è fondamentale ma la sua pura espressione non è utile, l’esercizio emotivo in sé è poco produttivo. L’energia delle parti più antiche e quindi più spontanee che incominciano a risvegliarsi, va indirizzata con consapevolezza “adulta” verso obiettivi più realistici e finalmente soddisfacenti. Non basta riaprire una gestalt fissa, è necessario richiuderla con una nuova comprensione e un’alternativa sana. L’autoregolazione organismica a volte può prendere troppo tempo o essere “distratta” da impulsi e messaggi tra loro contrastanti e di conseguenza la saggezza naturale può essere offuscata.

 

L’approccio cognitivo

Conviene sostenerla con un appoggio cognitivo focalizzato. Suggerisco ad L. di identificarsi con la bambina che lei è stata, di entrare nei suoi panni di quando aveva 4 – 5 anni e di fare delle richieste precise alla madre di quell’epoca, vedendone innanzi a sé l’immagine con l’età che aveva allora.

ln questo modo il genitore introiettato viene rimesso fuori, si ristabilisce la differenza tra l’lo e il Tu. Se viene messo all’estremo ha una sua esistenza autonoma, è possibile vedere le differenze, lottare e  trattare con lui e infine sciogliere l’antica confluenza. Quando si instaura il dialogo tra le due parti in conflitto l’lo osservante guadagna consapevolezza, l’energia si ridistribuisce e nascono alternative. “Prendimi da quella scuola, non farmi più andare lì”, si interrompe e, quasi incredula, commenta: “E pensare che prima lo sentivo un privilegio“: la sofferenza era compensata da un’idealizzazione: un presunto privilegio. “Cosa manca in quella scuola?” le chiedo per facilitare la focalizzazione del bisogno. “Una persona di carne ed ossa…tutte suore… manca libertà, tutti uguali, una massa… tutti in fila“. Le persone sono il tramite, ma ancora non viene espresso il bisogno. “Cosa volevano da te?” faccio la domanda per definire ulteriormente l’adattamento prescelto sotto l’influenza esterna e per rendere più evidente ai suoi occhi e quindi più inaccettabile il conflitto tra bisogno e divieto implicito nelle richieste, nelle indicazioni educative, in pratica nel modello che le veniva trasmesso. ln termini di Analisi Transazionale è il conflitto tra uno stato dell’Io Bambino e lo stato dell’Io Genitore. “Mi volevano suora… mi hanno vestita così… dicevano che avevo la vocazione.

E io pensavo a come potevo diventare più buona… Avevo i sensi di colpa per non essere più buona.” Ipotizzo che i suoi vissuti all’asilo siano il riflesso delle relazioni familiari e suppongo che ancor prima che con la suora, è con la madre che la piccola L. ha vissuto freddezza e distacco. Le chiedo: “Che ruolo aveva tua madre in questa storia?” e lei “ Di quella che ti manda” risponde in maniera secca. La invito a chiudere gli occhi ad entrare in contatto con il respiro per facilitare la procedura regressiva. Poi le suggerisco di focalizzare l’immagine della madre a quel tempo. Riporto al presente il passato; “Come la vedi?”. Non risponde alla domanda in maniera diretta ma descrive la scena che le è apparsa: “Mi accompagna giù alla salita” e mi dice “Vai tu da sola, io ti guardo, così lei poteva andarsene più presto”. Il respiro le diventa affannoso, l’emozione sale. “La suora è su… mia madre giù… e io salgo. Sto male… Madonna…”. Riapre gli occhi e interrompe il contatto con i ricordi: “Sento angoscia ma non riesco a collegarla alla bambina“. Ancora evita di riconoscere la sofferenza, riemerge il controllo fino al punto di negare i sentimenti che sperimenta, non accetta che l’angoscia che vive è proprio sua, di quella bambina che vive in lei.

A partire dal passato fino alla realtà di oggi la decisione di “non mostrare di aver bisogno” è ancora presente e ne determina vissuti e comportamenti. La riporto alla scena antica. Parlo alla bambina: “Per cosa senti angoscia?”. Un lungo silenzio e poi con voce lontana: “È sola… non ce la fa, sente il peso tremendo, la salita, la cartella… entrare in quella scuola”. Ancora tiene distanza, evita i sentimenti che vivrebbe se si identificasse pienamente nella bambina, per questo parla di lei in terza persona.

La invito ad un maggiore contatto ma evito domande dirette sull’emozione, sul cosa prova o sperimenta, alle quali forse non risponderebbe e le chiedo: “Cosa diresti a quella mamma?” facilitando una risposta filtrata dalla capacità razionale e di valutazione logica della circostanza. “Accompagnala, portala a casa“. Ora che ha un sostegno cognitivo penso sia pronta ad una identificazione più piena: “Cosa le diresti essendo proprio quella bambina, lì sulla salita?” “Voglio cambiare mamma” piange ora.

 

Le emozioni che emergono

T: Che madre vorresti?

P:   (Si trattiene, evita di esprimersi)

T: Non serve tanto trattenere

P: Mi rendo conto… non ha senso…che cavolo voglio…

T: (Provocando) Ti colpevolizzi. Vuoi essere più buona ancora

P:  (Molto più energica) Voglio cambiare tutto, quella casa, quella

madre.

La provocazione ha sortito l’effetto ed emerge un aspetto più vitale anche se al momento lo vive con esagerazione grandiosa.

P: Mi sento un suo oggetto, non sua Figlia.

T: (insisto perché definisca il bisogno) Cosa non ti dà?

P: Mi sento distaccata (sposta su di sé), non mi sembra mia madre.

Poiché ancora non risponde alla domanda e deflettendo evita di esprimere il bisogno, colgo un’altra possibilità più provocatoria agganciandomi all’ultima transazione.

T: Sei una bambina senza madre.

P: (Non reagisce ma è visibilmente scossa)

T: Come la sognavi una madre?

P: Vicina alla bambina, l’abbraccia, si muove con lei. Lei è statica, non cammina con la bambina.

T: Questo ti fa sentire sola?

P: Si, lei non viene. La salita e la suora da un lato, mia madre dall’altro. E quando arrivo neanche la suora mi prende. Ricordo l’immagine iniziale da cui si è sviluppato tutto il lavoro.

Anche il giardino è immobile e la bambina lì seduta con le braccia conserte è immobile. Invito L. ad entrare nuovamente in quel giardino, a rivisitarlo. C’è la bambina e dal fondo entra L. di oggi, con la capacità di amore che sa di avere, con la sua consapevolezza. “Fermati vicino alla bambina, guardala, di cosa ha bisogno?  Permetti che nel tuo cuore emergano i sentimenti che spontaneamente sorgono… e poi esprimi quello che senti”. Si muove lentamente, con le lacrime che le rigano il volto e un tenero sorriso e, mentre agisce dice: “La prendo tra le mie braccia, mi accoccolo a terra, vicino a lei e la stringo e sento che sto abbracciando me stessa e mentre voglio bene a lei, sento che voglio bene a me, perché siamo la stessa cosa. Sento che lei chiede tanto e io non la lascerò sola”.

 

La comprensione del passato: la soluzione

Ciò che era nello sfondo è entrato nella consapevolezza. L. ha attivato in lei quel genitore, quella mamma calda e accogliente che le è mancata e capisce che oggi può prendersi cura di se stessa indipendentemente da ciò che è stato. Può smettere la maschera ‘orgogliosa’ e sforzarsi meno, traendo più soddisfazione. Riconoscere l’antico bisogno non è, naturalmente, sufficiente. È solo una piccola tappa nel processo terapeutico. Ora dovrà imparare a chiedere e ad ottenere nella relazione con l’altro e l’esperienza dovrà essere integrata nella mappa più vasta della sua personalità, attraverso un lavoro lungo e minuzioso di piccole integrazioni e ridecisioni.

Il punto centrale è la presa di coscienza del fatto che oggi è responsabile per i suoi bisogni, che l’adattamento preso e il copione costruito, che compulsivamente ripete, non sono più efficaci per condurre una vita soddisfacente e per avere uno spazio veramente gratificante tra gli altri. La procedura utilizzata sul finale del lavoro è una forma di autogenitorizzazione rivolta a favorire la scoperta di bisogni e comportamenti, che sono rimasti carenti o perché i genitori reali ne erano essi stessi carenti, o per effetto di decisioni di copione e di solito per entrambe le cause.

Nel proprio copione di vita, L. ha riportato la sua storia elaborata secondo interpretazioni del tutto personali che hanno prodotto organizzazione cognitiva, emotiva e comportamentale che oggi caratterizza la sua esistenza. Nella storia di L., la madre è vissuta come “…  debole, distante, non riesce a dare, lascia perdere. Non ha mai giocato con me, non pensavo che le madri giocassero con i figli…”. Il padre non la guida, è ambiguo: “Non mi dice come comportarmi, o si arrabbia come un pazzo o si disinteressa”. Non le insegna come essere ‘adulta‘ e pretende che sia ‘adulta‘. La figura carente del padre che non guida è complementare a quella della madre che non accoglie e non protegge. L’ambiente in cui L. vive è descritto come freddo e buio.

Capisce presto che deve cavarsela da sola. In un certo senso, non si permette di vivere la sua età, si inventa un’immagine “ingrandita” di sé. Impara a non chiedere, decide che farà da sola, fingerà con se stessa e con gli altri di non avere bisogni. Per riempire il suo vuoto si metterà al centro, sarà “leader”, le staranno vicino perché “si divertono con lei”, così la riconosceranno e la ringrazieranno.

In questo modo fugge dal freddo interno e rinnega ogni rapporto significativo. Sogna un ambiente caldo e finge di essere felice. L’organizzazione cognitiva è tale che la mappa si autorinforza.  Finalmente il meccanismo non regge più e L. decide di “chiedere aiuto”, primo passo importante e nuovo nella sua vita.

Riconosce di avere bisogno e chiede terapia.

Il lavoro fatto nella seduta riportata ha prodotto risultati anche ai fini del riapprendimento. La conferma venne dopo un paio di settimane. In effetti lo sperimentare con se stessi, è vero, ha qualcosa di narcisistico ed è tuttavia un modo attraverso il quale il bambino apprende, prima di aprirsi pienamente all’esterno. L. aveva guadagnato fiducia attraverso la sua esperienza e per la prima volta aveva trascorso un weekend con la madre, da sole.  “L’ho invitata in un posto di vacanza, ero un po’ a disagio, ma sono stata bene con lei”, mi ha comunicato sinteticamente.