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Intervento terapeutico e centralità del paziente: Responsabilità, Consapevolezza qui ed ora.

Pubblicato in: Atti del convegno – “Colloquio clinico” – Edizioni Ordine degli Psicologi della Campania- Napoli 2013

 

“La terapia è un processo di crescita e maturazione attraverso il quale si sviluppa consapevolezza, spontaneità e intimità”.

 

L’approccio della scuola che rappresento, l’IGAT, basa i suoi programmi sull’integrazione di Psicoterapia della Gestalt e di Analisi Transazionale. Sono orientamenti con forte connotazione fenomenologico esistenziale ed entrambi di matrice psicoanalitica.

F. Perls formatosi in psicoanalisi e allievo, tra gli altri, di W. Reich e di K. Horney, si allontanò dal modello freudiano elaborando un metodo al quale originariamente dette il nome di terapia della Concentrazione. Formulò una sua teoria sull’importanza della focalizzazione in alternativa alla libera associazione freudiana, proponendo una modalità di lavoro che permetteva al paziente di sviluppare consapevolezza attraverso un’attenzione fortemente centrata sui propri vissuti ed esperienze del momento. Piuttosto che liberamente associare Perls invitò a stare, a fare contatto, come si dice in termini gestaltici, con quanto il paziente sperimentava, che fosse un sintomo, una parte dolente del corpo, un disagio psichico o un qualsivoglia problema. Questa attitudine favorisce l’espressione spontanea di aspetti di sé ai quali abitualmente non si guarda, l’inconsapevole che emerge grazie ad un’attenzione consapevole, piuttosto che un inconscio da interpretare. L’effetto di questo esercizio che favorisce l’espansione della coscienza, può essere il manifestarsi di esperienze emotive, sensoriali e di contenuti del profondo ai quali poter attribuire significato. Ad esempio, se il paziente presenta un malessere, un dolore, uno spasmo o qualsiasi altro sintomo, si identifica in esso e come tale si esprime, diventa più consapevole dei propri modi di vivere, delle sue paure, dei suoi blocchi e resistenze e quindi di come sia lui il responsabile nell’impedirsi di soddisfare i propri bisogni e desideri o di dare un senso più pieno alla propria esistenza.

Di fatto attraverso il sintomo che parla è la persona nella sua interezza che si esprime, è il paziente stesso che diventa consapevole di aspetti di sé poco o per niente conosciuti e si evidenziano i modi che utilizza per tenere in vita e alimentare il suo malessere. Non ha bisogno di suggerimenti o interpretazioni perché è proprio lui che si svela a se stesso. Non c’è niente da inventare né nessuno che possa rispondere alla sua domanda sul ‘chi sono?’ Finché evita di guardarsi mantiene in vita il personaggio che decise di essere, nel quale ancora oggi si identifica. Ma quel personaggio è una costruzione della mente, non ha alcuna realtà effettiva. In seguito il nome definitivo che Perls dette al suo approccio fu quello di Gestalt Therapy. Questa scelta fu probabilmente ispirata alla sua esperienza nella scuola di psicologia della percezione o della Gestalt, sotto la guida di Goldstein e altri, che frequentò insieme alla moglie Laura. In realtà più che improntare il suo modello ai principi e alle teorie della percezione quello che lo interessò fu guardare all’essere umano nel suo insieme, come a un intero fatto di tante parti organizzate in modo da dar vita a una forma originale, che ha qualcosa in più rispetto alla semplice somma dei suoi elementi costitutivi. Bisogna guardare alle persone nei loro molteplici aspetti che costituiscono una Gestalt, cioè una forma prodotta da un insieme di elementi congruentemente interconnessi. Si ispirò anche alle teorie gestaltiche di K. Lewin, per sottolineare che ogni esperienza va considerata in relazione al Campo in cui si manifesta e quindi in relazione agli altri fenomeni che in quell’ambito appaiono. Le sue prime esperienze da psicoanalista le visse a Berlino, negli anni ‘20 del secolo scorso, dove incontrò, frequentando gli ambienti culturali del tempo, diversi personaggi tra i quali alcuni divennero suoi ispiratori. Ho già citato W. Reich, dal quale apprese a dare attenzione al corpo e l’attitudine ad osservare in prima istanza il fenomeno, ciò che appare, guardando al come piuttosto che al perché. In seguito si discostò dal maestro. Non condivideva la sua teoria sulle resistenze. La resistenza non va eliminata come voleva Reich, affermò Perls, contiene un’energia che va integrata in quanto è comunque una parte costitutiva del sé. Tra i suoi ispiratori più importanti ci fu lo scrittore filosofo S. Friedlaender che viveva a Berlino in quegli stessi anni. Friedlaender parlò di “vuoto fertile” e lo considerò l’origine di ogni cosa. Non è un nulla, ha un suo potenziale creativo. Perls fu molto colpito da questa concezione e considerò il filosofo il suo maestro più importante. Quello del vuoto fu per Perls un principio guida nella sua visione dell’uomo. Oggi un filone della terapia gestaltica che fa capo a Claudio Naranjo, il maggiore prosecutore del messaggio di Perls, un movimento del quale io stesso faccio parte, considera fondamentale nel processo terapeutico l’attenzione allo sviluppo degli aspetti più sottili della coscienza, integrando anche conoscenze che vengono da antiche tradizioni spirituali. Le esperienze umane hanno un loro ciclo di formazione e dopo un tempo si dissolvono, tornano al vuoto, perché nella realtà profonda, come insegna il Buddha, ogni fenomeno è illusorio. La pratica meditativa porta direttamente a superare la nevrosi ed è una via maestra per la propria autorealizzazione. Per questo nella nostra scuola di formazione per terapeuti, diventa parte integrante dell’insegnamento. Nella prassi della Psicoterapia della Gestalt questi principi si traducono anche in un invito a praticare l’accettazione. Piuttosto che opporsi e sforzarsi di cambiare le cose, conviene lasciarsi andare al fluire delle esperienze, per dare spazio alla saggezza naturale e trovare l’equilibrio, in pratica seguire l’autoregolazione organismica. Questo principio riguarda anche le esperienze negative. In generale si tende a fuggire dal dolore, ma reprimerlo, nasconderlo o scacciarlo non aiuta, in questo modo la sua energia non si esaurisce. Accettandolo e vivendolo fino in fondo il dolore viene integrato e questo permette di far spazio a qualcosa di nuovo, che sia più congruente con la realtà attuale. È necessario chiudere le gestalt aperte per aprirsi a quanto la vita ancora può offrire. Altro grande ispiratore Per F. Perls fu M. Reinhardt, il regista che agli inizi del ‘900 rivoluzionò il modo di far teatro influenzandone il futuro. Con lui l’attore assume una nuova dimensione, non incarna il personaggio secondo schemi già precostituiti ma gli dà vita ponendo in esso le sue proprie caratteristiche, la sua psicologia, i suoi modi di sentire.

Il teatro si umanizza, recitare un ruolo non vuol dire più seguire il clichè stereotipato che la tradizione rimanda. Non si interpreta Otello seguendo delle linee guida, la persona che lo rappresenta è Otello e nell’interpretazione metterà il suo proprio mondo. Una delle modalità di lavoro di Perls, che fu lui stesso attore e seguì la scuola di Reinhardt, era quella di far identificare il paziente in parti della personalità e di fargliele vivere, sperimentandole, proprio come fa un attore con i suoi personaggi. Usando questa tecnica vengono messi in evidenza aspetti di sé poco o per niente conosciuti e si aprono altre possibilità per la vita concreta. Nel mio lavoro utilizzo quello che chiamo Teatro Trasformatore. Uno degli elementi basici è quello di esprimersi creativamente, rischiando di rivelare nuovi aspetti di sé, assumendo altre posture e atteggiamenti, esplorando altri modi di sentire e percepire, interpretando altri ruoli diversi da quelli abituali per scoprire quanto mi appartengono o quante possibilità mi aprirebbero se li riportassi nella mia vita quotidiana.

 

Sogno, quotidianità e crescita spirituale

Entrando più nel tema ora voglio dare un’idea di come le due scuole, Gestalt e Analisi Transazionale, si approccino al paziente. Porto l’esempio di uno dei modi con cui la Gestalt può lavorare con il sogno, proponendo un suo proprio modello del tutto innovativo. Per C. Naranjo il sogno è un messaggio esistenziale che una parte di sé invia ad altre parti dello stesso sé, in una sorta di non espresso dialogo interno. Viene a dirci della nostra vita reale, quella che viviamo oggi. Anche se il sogno riporta ricordi del passato, magari presentandosi con immagini del bambino che siamo stati, comunque il suo contenuto riguarda il nostro presente.

L’attenzione al qui e ora, è centrale nella filosofia e nella prassi gestaltica. Di qui l’interesse di F. Perls per l’ovvio, per ciò che appare. I nostri allievi apprendono a cogliere il linguaggio non verbale attraverso i segni che si manifestano, al di là delle parole, e a dargli significato. Ne consegue che nella relazione terapeutica si prediliga lo stare in contatto con la persona reale piuttosto che con ipotesi e teorie. Tornando al sogno, per dar voce ai messaggi che porta, la Gestalt utilizza, tra le altre, la tecnica della identificazione, similmente a quanto più sopra riportato per il sintomo. Si diventa il sogno o alcune delle sue parti e come tale ci si esprime. Di fatto si sperimentano aspetti di sé, della propria vita concreta e si sviluppa consapevolezza. Non importa il passato, non c’è più, e tantomeno il futuro, ancora non c’è e non sappiamo se verrà. La vera scoperta è rendersi conto di come effettivamente si vive oggi.

Cadono le maschere e gli inganni, emerge verità. È difficile sfuggire e l’impatto può essere molto forte. Che mi sia identificato in una pietra, una farfalla, una montagna, un angelo o belzebù, vivendo quella parte del sogno sto comunque rappresentando me stesso. Sono una farfalla, svolazzo, mi poso su un fiore, una mano mi sfiora, ho paura, è la mia esperienza e mi apre alla consapevolezza grazie a una eco interna, la coscienza osservante che si rispecchia in quanto viene vissuto. Si risvegliano sentimenti, si contattano emozioni e si comprende. Il sogno mi dice chi sono. La coscienza è capace di cogliere in quella recita apparente, mie forme reali di esistenza. Si può soffrire per le incongruenze o rammaricarsi per le limitazioni che scopriamo di darci o sentirsi eccitati quando si aprono nuovi orizzonti e nuove prospettive.

In questo tipo di lavoro si attiva un continuo di consapevolezza, una forma di concentrazione che si svolge nel qui ed ora, momento per momento. Quando l’attenzione fluisce liberamente, permette l’apertura a nuove esperienze e a nuove comprensioni su sé stessi e questo processo, pur se con differenze, è molto vicino ad una pratica meditativa. Quello a cui mi sto riferendo è un modello ideale, l’equivalente di una libera associazione, senza interruzioni e focalizzata su oggetti specifici. Tornando al sintomo, ad esempio, un mal di testa potrà esprimere le ragioni della sua esistenza magari rivelando bisogni insoddisfatti, in ogni caso rappresenta una parte di sé che reclama attenzione e lo fa in forma mascherata. L’osservatore interno, una sorta di saggezza interiore lo ascolta, si rende conto di quanto accade e questa sola consapevolezza a volte permette che il sintomo svanisca, perlomeno temporaneamente.

Si tratta di un processo integrativo che avviene all’interno di sé. La filosofia gestaltica è integrativa. Non c’è nulla da eliminare, ogni nostra forma di essere e comportarci è parte di un tutto unitario e a quella unità bisogna tendere. Le stesse difese o resistenze, come già visto, fanno parte del tutto e come tali vanno riassimilate, sono frutto di energia creativa e un tempo hanno avuto una funzione importante. Hanno formato una barriera protettiva per il bambino che si incontrava con un mondo più forte di lui e l’energia che trattengono, una volta liberata, resta disponibile per l’intero organismo. Tornando all’esempio del sogno, ogni parte che lo compone è un frammento dell’intero così come la persona che lo sogna ed è frutto di una scissione originaria che ha prodotto la perdita di riferimenti e di certezze che ancora condizionano l’esistenza. Quando i pezzi vengono reintegrati si recupera interezza e ci si riavvicina all’unità originaria, dalla quale ogni essere umano proviene, alla quale naturalmente tende e dalla quale, paradossalmente scappa. Possiamo parlarne in termini spirituali o di psicologia evolutiva se guardiamo al processo di separazione dalla madre e alla rottura della simbiosi. F. Perls alla fine degli anni ‘50 e nei primi anni ‘60, in California, nella famosa Esalen, centro mondiale della cultura della crescita e dello sviluppo personale, di cui fu leader carismatico, entrò in contatto con tante forme di terapia e con rappresentanti di movimenti e tradizioni spirituali che in quei tempi, dall’oriente, si affacciavano nel mondo occidentale. La sua Gestalt e in seguito quella di C. Naranjo, che fu il suo successore, ne vennero molto influenzate. Naranjo in particolare inserisce nei programmi SAT la pratica di diverse forme di meditazione buddhista, la Vipassana, lo Zen e il Vajrayana, insieme a differenti modelli di lavoro con la psicoterapia. Questi e altri ingredienti relativi alla relazione, al lavoro sul corpo, all’armonizzazione del gruppo, alle forme di terapia mutua e di supervisione, costituiscono quella che Naranjo considera un’unica via. Il lavoro su se stessi mira a favorire la propria realizzazione nella quotidianità, nel cosiddetto mondo relativo, ma anche a raccogliere frutti che permettano di raggiungere stati di coscienza guidati dalla naturalezza della mente, ai fini di una piena realizzazione spirituale.

La struttura

Tornando al continuo ciò che accade abitualmente è che nel suo svolgersi ci siano delle interruzioni, momenti di chiusura, di blocco dove la spontaneità naturale si arresta e là dove dovrebbe esserci spazio creativo, subentrano meccanismi difensivi che in varie forme tendono a riempire i vuoti di coscienza con riferimenti stabili. Incominciano ad organizzarsi le strutture. Dal caos, che vuol dire vuoto, si rivela l’ordine, emergono forme. Sono sistemi di sopravvivenza che subentrano al vuoto fertile per riempire l’angosciosa mancanza d’essere, la paura della non esistenza. Danno identità alla persona. Sono modelli rigidi che finiscono per restare sempre uguali a sé stessi: il carattere, la personalità, il copione di vita. Furono utili nei primi stadi della crescita infantile ma poi, nel tempo, divennero degli impedimenti che in maniera inconsapevole continuano a sostenere antiche scelte che non permettono di guardare alla realtà attuale per quello che è.

 

Prima del pensiero

In Gestalt si parla di ciclo di contatto. La meta a cui aspirare è il contatto pieno, che prevede lo stare con presenza nel qui ed ora con quello che davvero serve, che si percepisce con i sensi e si vive emotivamente. In altri termini dando attenzione a quanto l’organismo richiede e seguendo quella che V. Gallese nelle neuroscienze definisce la sensazione, ossia la spontaneità naturale. È auspicabile che sia questa a guidare la persona prima che subentri il pensiero con le sue valutazioni e i suoi giudizi. La Gestalt, in tempi precedenti, parlò di una fase di precontatto, esperienza non dissimile da quanto nel campo della neurofenomenologia, F. Varela, scienziato e praticante di meditazione buddhista, definì la mente ingenua, un’esperienza di base importante da recuperare per permettere un approccio più naturale e spontaneo alla vita.

 

Intimità e evitamento

Questi principi erano già presenti nel modo in cui F. Perls concepì la relazione. Ne fu ispiratore il principio dialogico di M. Buber, che Perls fece suo. L’attenzione all’io – tu ebbe lo scopo di favorire rapporti in cui le persone si potessero incontrare con intimità, essenza con essenza. Questa visione caratterizza il lavoro di gruppo, ma anche la relazione paziente-terapeuta, durante la quale viene incoraggiata una certa trasparenza e il contatto da persona a persona, in un clima di autenticità nell’espressione dei loro reciproci vissuti. Lasciarsi guidare dall’autoregolazione organismica facilita lo stare con quello che è piuttosto che con quello che dovrebbe essere, un doverismo introiettato che impedisce di seguire ciò che effettivamente serve, si desidera e farebbe crescere. Succede abitualmente che dalla pienezza del contatto con i propri bisogni o con le altre persone, anche quando molto desiderato, si tenda ad andar via. Lo si evita in vari modi e piuttosto che vivere l’esperienza, quello in cui ci perdiamo sono confusione, alienazione, ritirò in sé, tensione continua o altre forme attraverso le quali, in maniera inconsapevole, limitiamo la nostra esistenza. Si può cercare fuori da sé il responsabile dei propri malesseri, fino a sentirsi perseguitato, oppure il limite lo si vede in sé stessi, ci si sente poca cosa, un incapace, senza valore, forse una vittima o un depresso. Oppure non si osa uscire allo scoperto e rischiare di essere vero, al contrario ci si trattiene e si fa male a sé stessi. Tanti modi per vivere una vita insoddisfacente che influenzano anche le relazioni affettive rendendo difficile il lasciarsi andare pienamente ai rapporti, con tante forme di evitamento che nella coppia, ad esempio, impediscono di raggiungere un amore maturo.

 

Sperimentare

Uno degli strumenti della Gestalt per sollecitare la pienezza del contatto e per uscire da negazioni e repressioni, che introdusse lo stesso F. Perls, è l’esperimento. Per la cura anziché interpretare, parlare, raccontare, l’invito è quello di sperimentare direttamente nuove possibilità, nello stesso setting terapeutico, magari nel gruppo. La persona impara a mettere in atto concretamente quanto reprime o nasconde, che siano emozioni, gesti, atteggiamenti o non detti. Invitato a scoprire nuovi comportamenti, il paziente viene sollecitato ad essere più vero con se stesso e con gli altri, più spontaneo e trasparente. Dal correre un rischio apprende nuove possibilità.

 

Caos e ordine

A volte ho usato la metafora di Caos e Ordine per dare un’idea sul come si manifesta la nostra realtà concreta, effettivamente sperimentabile, che si avvicini ad una concezione della visione dell’uomo in Gestalt. Sono modi di guardare al mondo e all’universo che affondano le proprie radici nei miti che peraltro trovano riflesso nel pensiero e nella scienza moderna. La parola Caos significa apertura, voragine e richiama il vuoto. Quel vuoto che da Einstein in poi la scienza considera la matrice originaria di ogni fenomeno. Il vuoto è alla base della teoria e della prassi gestaltica, come già detto in precedenza. Dal vuoto nasce ogni cosa esistente per effetto di un potenziale creativo che caratterizza il perenne divenire dei processi che danno vita alla realtà quotidiana, scandita dal tempo e dallo spazio. L’ordine è frutto di un adattamento creativo. Dal vuoto emergono energie capaci di produrre atti volontari che danno vita a forme sempre più organizzate, decisioni esistenziali da cui derivano schemi, mappe che così ordinati diventano automatici, ripetitivi, sempre uguali a se stessi. Si formano i caratteri, cioè modelli comportamentali, copioni di vita che infine si sovrappongono al potenziale creativo e si cristallizzano. Apparentemente proteggono l’esistenza, e un tempo lo fecero, ma anche la rendono limitata e insoddisfacente. Alla base dell’ordine c’è un’attività intenzionale, diretta e finalizzata.

 

Il dualismo

Il risultato è il mondo relativo, la quotidianità, con i suoi pregi e i suoi limiti. Dal caos e dall’unità originaria, misteriosa, si entra in una visione dualistica, nel mondo delle polarità, delle antitesi e delle differenze. Il dualismo è frutto ripetuto nel tempo di una scissione primordiale. Quando lavoriamo in terapia è per organizzare una migliore e più soddisfacente quotidianità, è a questi conflitti che ci rivolgiamo e in Gestalt possiamo trattarli con la tecnica delle due sedie e il dialogo guidato tra le parti, allo scopo di raggiungere la loro integrazione, dando vita ad una terza forma, frutto dell’incontro delle due polarità. La meta ultima a cui si aspira è il ritorno all’unità originaria, stato in cui, idealmente, l’energia naturale scorre in maniera fluida e permette un continuo di esperienza vissuta con contatto pieno, nel quale si sperimenta una forma di presenza, che fa dire ci sono, sono qui. Se facciamo riferimento all’Analisi Transazionale, possiamo dire che questa è una condizione nella quale è attivo l’Adulto integrato, uno stato di coscienza libero da influenze e condizionamenti derivanti da stati dell’io genitoriali, metafora per rappresentare l’insieme degli stimoli che giungono al bambino dal mondo esterno, e cioè il mondo dei grandi, i genitori, l’ambiente, la cultura, esperienze che vengono incorporate e dalle quali si resta dipendenti vivendo varie forme di limitazioni. Quando intervengono divieti e impedimenti il bambino naturale di cui parla l’AT, entra in uno stato di paura e si aggrappa a qualsiasi cosa possa essere un riferimento, un appoggio e si adatta a schemi pensati e organizzati secondo logiche difensive e protettive.

 

I modi dell’Analisi Transazionale

Il fondatore dell’Analisi Transazionale fu E. Berne. Elaborò le sue nuove teorie e la conseguente pratica terapeutica dopo un training in psicoanalisi fatto in particolare con P. Federn e E. Erikson. Maturò una buona esperienza clinica lavorando in ospedali psichiatrici in diverse parti del mondo. In una biografia, tratta da suoi appunti, si legge che ammirava la dedizione del padre, medico, per i suoi pazienti e che spesso da piccolo lo accompagnava per le visite domiciliari che faceva anche molto lontano da casa, a volte anche in condizioni climatiche difficili. Da queste esperienze sviluppò, come racconta, il principio che fu poi alla base del suo approccio terapeutico: ‘Prima cura’ e poi occupati del capire, visione che nel tempo lo aveva allontanato dalla psicoanalisi. A differenza di Perls scrisse molto e alcuni suoi libri furono dei best seller, come ad esempio: A che gioco giochiamo?

E. Berne, rispetto alla Gestalt, dà più attenzione ai fenomeni strutturati e teorizza gli Stati dell’Io, che considera strutture basiche della personalità. Si occupa delle forme della comunicazione, cioè le Transazioni e i Giochi psicologici e guarda alla personalità nel suo insieme attraverso gli schemi del Copione di vita. Tutto ciò dà all’AT un forte corpo teorico che si traduce in una molteplicità di tecniche e metodologie che permettono un ampio spettro di intervento, guardando al processo e alla struttura, ai fenomeni che si manifestano e ai contenuti del profondo. I Giochi psicologici così come concepiti da E. Berne costituiscono un capitolo molto particolare dell’approccio al paziente. “A che Gioco giochiamo?” è stato per anni un best seller e alcune sue magliette sono entrate nel linguaggio comune: È tutta colpa tua, Povero me, Goffo pasticcione e tante altre. Sono maniere per descrivere modelli caratteriali e comportamentali che inquadrano inesorabilmente una persona e ne definiscono il modello esistenziale. Il Gioco riflette il Copione di vita e riguarda la comunicazione e le sue deviazioni. In particolare ci si occupa dei risultati negativi, spesso drammatici che esso produce.

Inizia con la svalutazione di uno degli interlocutori nei confronti di un altro con il quale è in relazione. Al messaggio verbale è sotteso altro stimolo inespresso, che resta nascosto. La svalutazione è inconsapevole. Ad un certo punto della comunicazione, attraverso quello che Berne chiama un ‘colpo di scena’, come in teatro, il non detto viene fuori, improvviso e apparentemente imprevisto, anche in maniera molto intensa e mette fine alla comunicazione in corso, lasciando gli interlocutori con stati d’animo e vissuti emozionali spesso fortemente negativi ai quali a volte si associano anche reazioni fisiche. Perché avvenga un gioco è necessario che anche l’altro interlocutore faccia delle svalutazioni e si agganci a quanto il primo giocatore gli rimanda. Ci vuole complicità. Queste forme di comunicazione sono percepibili a livello non verbale, per cui un osservatore esterno attento, può cogliere quel qualcosa che viene nascosto dietro il linguaggio verbale rilevando una certa inautenticità nell’espressione, nei gesti, nei toni di voce o altri segnali che si rivelano negli stimoli transazionali che intercorrono tra i giocatori. L’abilità del terapeuta, in gruppo, con le coppie o anche nella sua relazione individuale con il paziente è quella di cogliere il non detto e di utilizzarlo per guidare verso altri obiettivi, più consapevoli, gestiti dalle parti adulte della personalità. Perché ci sia un gioco, gli stati dell’io in relazione sono genitoriali o bambini e i ruoli che vengono giocati di vittima, persecutore o salvatore. Il discorso è molto ampio e scelgo di soffermarmi un po’ sul copione per dare il senso di come i diversi modi di trattare il qui e ora siano complementari alle maniere di guardare alla struttura.

 

Il Copione di vita

Berne definisce il Copione un piano di vita. Parla di protocolli riferendosi ai nuclei più arcaici della futura mappa copionale, quelli che il bambino incomincia a organizzare, già a livello corporeo, nei primissimi mesi di vita, ancora nel ventre materno. In seguito queste tracce prenderanno forma anche emotiva e cognitiva e così verranno associate alle esperienze corporee anche emozioni e pensieri. La formazione della mappa esistenziale si completerà nei primi sei, sette anni. Berne ritiene che il copione di vita, proprio come quello teatrale, abbia un suo inizio, un suo sviluppo e un suo finale. La storia che vive un essere umano ha una continuità e c’è congruenza tra le varie parti, segue linee ben definite e individuabili, e così, proprio come nel teatro, guardando a come il dramma incomincia si può prevedere il suo finale, cosa verrà scritto sulla lapide dei personaggi dopo morti, dice Berne. A meno che non intervenga qualche evento che spinga a cambiare direzione.

La vita umana ha una sua ripetitività e i comportamenti tendono ad essere sempre uguali a sé stessi. Fin da piccoli cerchiamo riferimenti, ci aggrappiamo a quanto ci rassicura e non importa se soddisfa o no, vogliamo innanzi tutto certezze e una volta incontrate non rischiamo il cambiamento, ci identifichiamo nell’adattamento preso, e ci muoviamo nella vita come una marionetta. Pochi gesti e limitati. Altro modo di guardare alla struttura della personalità e parte integrante del modello che propongo è la Psicologia degli Enneatipi, che proviene da una antica tradizione spirituale, quella dell’Enneagramma, un mondo di esperienze trasmesse da culture che mettono al centro del loro interesse la pratica della saggezza. In questo ambito rientra una forma di caratterologia che si muove tra l’individuazione di particolari modelli adattivi che ciascun individuo assume, forme sempre uguali a sé stesse, meccaniche e ripetitive e le possibili vie di uscita verso una maggiore libertà comportamentale e l’apertura alla spiritualità grazie alle esperienze meditative.

Nei tempi moderni se ne è occupato e l’ha introdotto in occidente G. I. Gurdjieff, uno dei massimi rappresentanti della cultura dello sviluppo umano e nel mondo della psicoterapia e del transpersonale C. Naranjo, un cercatore di verità dei nostri tempi. Formiamo un carattere che resta sempre uguale a se stesso, come i personaggi della commedia dell’arte. Sono ruoli che permettono di riconoscerci e di farci riconoscere. Tante Colombine, Pantaloni, Arlecchini e così via, popolano il mondo. Nella Psicologia degli Enneatipi si parla di 9 tipi caratteriali che a loro volta si strutturano in 27 sub tipi, divisi secondo la tipologia degli istinti dominanti: conservativo, sociale e sessuale, quasi un parallelo delle fami teorizzate da Berne, in pratica le necessità vitali per la sopravvivenza dell’individuo che si distinguono in: fame di struttura, di stimolo e di riconoscimento. La tradizione insegna anche come diagnosticare queste tipologie e come superare le limitazioni caratteriali attraverso percorsi psicologici e vie di conoscenza che permettono di raggiungere una piena evoluzione della coscienza. Similmente al carattere il Copione è frutto di adattamenti infantili che tendono a ripetersi in maniera meccanica, una sorta di automatismo, in forme sempre uguali a se stesse.

L’AT, influenzata dalla psicoanalisi guarda alle dinamiche interne che organizzano la personalità. Berne parla del Copione come di un: “Un dramma transferale solitamente suddiviso in atti, proprio come i copioni teatrali che non sono altro che artistiche derivazioni intuitive di questi drammi della prima infanzia”, epoca nella quale il bambino incorpora i messaggi genitoriali che diventano elementi fondanti del ‘programma’ di vita che organizzerà nel tempo e che condizionerà le sue esperienze dando specifiche direzioni alle scelte importanti della sua esistenza: le relazioni affettive, il tipo di lavoro, la carriera e le relazioni in generale. Tali scelte sono frutto delle influenze genitoriali delle quali il bambino fa una propria rielaborazione, rifiutando o accettando quanto riceve e infine creativamente decidendo su quanto di fatto sceglierà come suo comportamento: modi di pensare su se stesso, la vita e gli altri.

Il Copione ha una teoria molto articolata che permette di comprendere le dinamiche interne e le ‘regole’ sulle quali si fonda la sua struttura, ma anche i modi e le vie per scoprire e attivare nuove forme ‘di stare al mondo’ attraverso processi ridecisionali. La filosofia dell’AT sostiene la piena capacità dell’essere umano e la parità tra i simili, in quanto tutti portatori di un unico potenziale originario e tutti capaci di recuperarlo. È quella che venne definita la filosofia dell’Okneiss: lo sono Ok, tu sei Ok, come propone in un suo volume T. Harris. Questa maniera di guardare all’uomo comporta una congruente visione terapeutica. Il paziente è capace di assumersi la responsabilità del processo terapeutico alla pari con il terapeuta e quindi di stabilire con lui mete ed obiettivi, e di conseguenza di ridecidere sul suo Copione di vita.

La terapia è rivolta alla cura del sintomo o del comportamento, comunque manifestazioni nel qui ed ora del Copione o alla ristrutturazione della personalità, che prevede un trattamento del profondo, ai fini del raggiungimento dell’Autonomia. Tra le varie modalità, è utile a questo scopo il lavoro regressivo che permette di rivivere attraverso tecniche gestaltiche, scene e vissuti della prima infanzia che consentono di individuare i nuclei fondanti delle problematiche che si manifestano nella vita. Vari autori si sono impegnati nella lettura dei principi guida di tali dinamiche e nella focalizzazione dei vari tipi di empasse che si formano nelle diverse fasi evolutive. Al di là della tecnica, la terapia è un processo di crescita e maturazione attraverso il quale, secondo Berne, si sviluppa consapevolezza, spontaneità e intimità. Gestalt e Analisi Transazionale, nella loro integrazione si completano l’una con l’altra.