Il transfert nella psicoterapia della Gestalt

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Il transfert nella psicoterapia della Gestalt

Pubblicati in: La clinica del transfert, a cura di D. Juston e E. Giusti – Edizioni Kappa – Roma, 1991.

 

“Il transfert è una modalità relazionale attraverso la quale il paziente esprime una sua “mancanza d’essere”, risultato di affari incompiuti che reclamano soddisfazione”.

 

Freud riteneva decisivo nel lavoro psicoanalitico “ricreare all’interno del rapporto con il medico, cioè nella traslazione, nuove edizioni di quei vecchi conflitti in relazione ai quali l’ammalato vorrebbe comportarsi come si è comportato a suo tempo” (Freud, 1915 – 1917).

L’analisi della traslazione assume grande importanza nella tecnica analitica perché diventa fenomeno osservabile di come il paziente riproduce nel presente “i vecchi conflitti”, rivivendoli attraverso una “neoproduzione della malattia” nel rapporto con il terapeuta. Favorisce l’accesso al mondo interiore del paziente in maniera più diretta rispetto alle più classiche libera associazione e interpretazione. Lo scopo finale della cura analitica sarà di costringere infine il paziente a “decidersi altrimenti” convogliando le energie verso mete più soddisfacenti.

Facendo rivivere nel presente le scene originarie, il terapeuta gestaltico si ripropone scopi del tutto simili: ridecidere sulle interruzioni attuate in epoca infantile e riutilizzare l’energia bloccata per soddisfare bisogni attuali.

La terapia della Gestalt pur avendo nel suo bagaglio metodologico numerose possibilità tecniche per raggiungere il mondo interiore del paziente, non esclude minimamente l’approfondimento degli aspetti relazionali, senza tuttavia proporsi di alimentare una nevrosi da transfert. Scopo fondamentale è quello di favorire al più presto l’assunzione di responsabilità e l’autonomia, piuttosto che passare attraverso una lunga, accentuata e poi guarita malattia da dipendenza, quale mi sembra essere la nevrosi da transfert.

Ritengo che l’aspetto relazionale sia pur sempre una manifestazione esterna di quanto avviene a livello intrapsichico, e che l’analisi degli aspetti sia una via, a volte più diretta, più immediata, per accedere al mondo interno del paziente e del terapeuta. Idealmente l’integrazione è raggiunta quando l’esterno non può più influenzare l’interno e l’individuo assume una nuova autosufficienza che non è più quella falsa, del narcisista, ma quella veramente autonoma di chi segue il cammino della saggezza. Allora, piuttosto che oggetto transferale, il terapeuta diventa il facilitatore di questo processo e, in quanto tale, offre al paziente un ambiente protetto e affidabile nel quale potersi permettere il rischio di esplorare le dinamiche interne e di restituire alle funzioni dell’Io il governo intenzionale dell’eccitazione che un tempo fu interrotta.

Ne consegue che i fenomeni transferali possono essere utilizzati considerandoli rappresentativi di modalità interruttive che adottano sia il paziente che il terapeuta nei loro processi di contatto.

Da quanto detto nessun valore viene tolto al concetto tradizionale di transfert, inteso come modalità di trasferire sul terapeuta “una serie di risposte emotive e di atteggiamenti” già vissuti con una o più persone significative del passato, quasi il paziente “agisca una forma di delirio per il quale non è il contatto con il terapeuta, ma con una creazione immaginaria che gli impedisce la relazione con la persona reale” (Perls, 1977). Tuttavia, in linea con quanto suggeriva Perls, diventa più coerente per la teoria gestaltica considerare il transfert una modalità relazionale attraverso la quale il paziente esprime una sua “mancanza d’essere”, risultato di “affari incompiuti” che reclamano soddisfazione. Se il bisogno non può essere soddisfatto dall’interno, in maniera autonoma, viene fittiziamente appagato attraverso la creazione di una fantasia: il paziente si illude che il sostegno possa venire dal mondo esterno.

In questa direzione assumono particolare rilevanza quegli aspetti transferali che rivelano il rifiuto del vero sé nascosto dietro la creazione di un sé ideale che il paziente proietta sul terapeuta, un persecutore interno che gli suggerisce costantemente come dovrebbe essere, in uno spietato gioco di autotortura nel quale vengono vittimizzati quegli aspetti della personalità che per il fatto di non corrispondere al modello, sono considerati limitanti e quindi da rifiutare.

La P.d.D. ha una vocazione anti-ideale (Naranjo, 1979) e un’attitudine a riportare il paziente entro i confini estremamente realistici, proponendo come via per il cambiamento il paradosso gestaltico dell’accettazione del limite.

L’idealizzazione del terapeuta, può essere considerata una modalità compensatoria che il paziente adotta per riempire i buchi della sua personalità, attribuendo all’immagine idealizzata quanto ancora gli manca.

In questo modo può permettersi di sognare un’esistenza migliore e proietta sul terapeuta l’antico senso di onnipotenza (Kohut, 1973), che gli permise di sopravvivere alle esperienze di vuoto e di nullità che provò a causa dei suoi limiti reali di bambino vulnerabile, non protetto da un adeguato sostegno. Il terapeuta rappresenta il padre possibile, il padre non avuto: la mancanza di sostegno originaria viene compensata mediante la costruzione di un’immagine ideale.

Così come avvenne con il padre anche il terapeuta, dopo un po’, può diventare deludente. Il paziente incomincia a scoprire i limiti, vive una crisi di speranza e poiché lo ritiene colpevole di non

rispondere alle sue aspettative, diventa oggetto di rifiuto. L’impegno è di non farsi agganciare nel gioco e di mantenere un’attitudine neutrale, ma non priva di partecipazione, che consenta di poter dare quanto serve, coscientemente “in misura maggiore o minore, secondo necessità”, come suggerisce Kohut riportando insegnamenti di Freud (Kohut, 1976), al fine di sostenere il senso di realtà favorendo l’accettazione del vero sé. Consapevole che la loro relazione è la rappresentazione esterna di un processo interno, il terapeuta gestirà l’esperienza relazionale con delicato equilibrio, permettendo che in certa misura il paziente lo idealizzi, ma anche frustrandolo per lo stesso motivo, per guidarlo verso un contatto con la persona reale, piuttosto che con l’idea che il paziente ha di lui.

Questa modalità di intervento consente di ricondurre l’esperienza traslativa ad un senso di realtà che si basa sull’accettazione del limite in opposizione al delirio dell’idealizzazione. Sia nella traslazione positiva che in quella negativa lo scopo del paziente è unico, mantenere relazioni simbiotiche e confluenti che, attraverso una incondizionata accettazione che diventa dipendenza o un acritico rifiuto che diventa ribellione, consenta di mantenere attivo il sistema delle interruzioni. La traslazione ha fini essenzialmente difensivi e come ogni ripetizione coattiva tende a proteggere dall’angoscia di contattare il proprio limite e dietro questa da un’angoscia ancora più profonda, quella di non esistere, quasi che il terapeuta idealizzato possa esorcizzare queste paure.

Poiché, come è stato detto, ciò che differenzia sostanzialmente l’approccio gestaltico da quello analitico classico è nel fatto che l’elaborazione è immediata e che la traslazione viene considerata come “una mancanza d’essere”, invito il paziente a riappropriarsi di quanto sta proiettando sul terapeuta favorendo la decontaminazione degli aspetti idealizzati per ricondurre la relazione entro

confini reali, per poi procedere attraverso un lavoro più profondo, teso a scoprire e a chiudere le gestalt ancora aperte, fino alla ridecisione sulle posizioni autolimitanti assunte dal bambino impaurito.

Il paziente R. sognò il suo terapeuta che, nudo e imponente mostrava con soddisfazione il proprio corpo mentre faceva la doccia. Identificandosi nel ruolo, R. poté contattare il bisogno di esporsi e di accettare la sua corporeità. Riassimilando gli aspetti idealizzati, via via l’immagine diventava meno stereotipata e si faceva strada il desiderio di aprirsi agli altri con maggiore semplicità e fiducia. Procedendo nel lavoro sul sogno fu chiaro che dietro l’immagine idealizzata del terapeuta, vissuto come chi poteva dargli il permesso di esporsi, si nascondevano blocchi ben più profondi relativi all’affidarsi. D’altra parte emerse il bisogno di una guida: “nel sogno ti vivo come un genitore, ma diverso da quello che ho avuto”. La domanda alla quale ho cercato risposte durante questo lavoro è stata del tipo: “cosa gli manca che attribuisce a me”.

L’immagine del terapeuta nel sogno, si è rivelata il prodotto di un adattamento complesso (Ferrara, 1989) nel quale il paziente riversa il suo sé ideale, e dietro questo nasconde il suo vero sé, allo scopo di portare avanti il suo sistema difensivo.

In questa ottica anche la resistenza alla terapia può essere intesa come desiderio di proteggere il modello ideale. Le omissioni permettono di non perdere l’apprezzamento del terapeuta che non stimolarlo se gli mostrasse la sua vera faccia. Questo fattore mi pare che sostenga la resistenza perlomeno con pari forza rispetto al desiderio di evitare stati di angoscia.

Le possibilità di traslazione aumentano nel setting di gruppo e ogni membro può diventare oggetto di particolari vissuti transferali, oltre al terapeuta. Mentre L. lavorava su un’impressione dalla quale trovava difficoltà ad uscire A. scoppiò in un pianto irrefrenabile. Il tono “tranquillo”, privo di emozioni e l’attitudine “indifferente” del compagno di gruppo, le avevano suscitato un senso di impotenza del quale non sapeva darsi ragione. Dopo un po’ ricordò che il padre era solito assumere quell’atteggiamento di fronte al quale da piccola si era più volte sentita come paralizzata.

L’esperienza di L. aveva risvegliato la storia della sua relazione con il padre e lui stesso era diventato l’immagine della persona reale. Il terapeuta, d’altro canto, rappresentava la parte mancante, il padre ideale che poteva aiutarla a superare la sua mancanza d’essere.

Il transfert si realizza in due direzioni principali. Può essere il ricordo di esperienze reali che viene trasferito sulla persona del terapeuta o del compagno di gruppo, oppure il risultato di una rielaborazione interna delle esperienze infantili che vengono trasformate da processi di idealizzazione positiva o negativa. Naturalmente sono diverse le implicazioni e le sue conseguenze per la terapia. Nel primo aspetto sono presenti le caratteristiche di una proiezione conseguente all’introiezione, nell’altro si rivelano meccanismi di maggiore complessità nei quali intervengono elaborazioni effettuate mediante un tipo di pensiero più arcaico.

Da quanto detto fin qui è già emerso che l’aspetto controtransferale va di pari passo con le manifestazioni del paziente. I vissuti del terapeuta diventano particolarmente significativi in Gestalt, anche se a volte questo principio è stato inteso come un obbligo alla trasparenza.

Il terapeuta tende a porsi come persona reale, consapevole che spesso le proiezioni del paziente trovano riscontro in caratteristiche sue personali. Questo, di per sé, favorisce la riduzione dei fenomeni transferali e facilita l’acquisizione del senso di realtà. A volte il terapeuta è veramente antipatico, così come in altre occasioni è veramente una persona amabile. In ogni caso nella proiezione c’è sempre un aspetto di verità.

Trovo molto utile per il terapeuta assumere un’attitudine ricettiva piuttosto che interventista, permettendosi di entrare nel continuo di consapevolezza associato ad un profondo contatto io-tu con il paziente. Sperimentando questo stato, che definisco attitudine meditativa, sarà più facile ascoltare la propria voce interna e osservare i momenti di interruzione, così come le trappole tese dal proprio bisogno di riconoscimento, che può indurre a porsi come immagine seduttiva, da amare e idealizzare o anche ad assumere un ruolo troppo empatico e protettivo o esageratamente rifiutante e distaccato. “Quando seguiamo i nostri modelli, le teorie, la compulsione a fare, perdiamo il rapporto con il paziente, stiamo agendo per il nostro “ideale professionale” (Ferrara, 1989)”.

Il terapeuta che si apre al continuo di consapevolezza permette l’emergere di reazioni fisiche, contratture, tensioni, fastidi piccoli e grandi, emozioni, pensieri e fantasie che sta vivendo con il paziente e a quanto questi gli rimanda. Lasciando spazio verrà il momento in cui l’intervento terapeutico sorgerà spontaneo, sarà un suggerimento che viene da dentro piuttosto che da una tecnica preordinata e uguale per tutti, sarà l’intervento corrispondente a quella specifica relazione, dove i due poli della comunicazione sono diventati un sistema.

Naturalmente questa forma di spontaneità creativa deve essere sostenuta da conoscenza teorica e capacità tecnica.

L’esprimere o meno le proprie reazioni controtransferali è fatto squisitamente personale. Comunicare le proprie reazioni è caratteristico del terapeuta gestaltico, ma questo non vuol dire che va fatto sempre. La situazione specifica e soprattutto la capacità che ha il terapeuta di sostenere le reazioni del paziente a quanto gli va comunicando, sono a mio parere le indicazioni più utili.

A volte con persone molto disturbate ci si sentirà coinvolti con richieste troppo invadenti e pressanti e solo la capacità empatica e l’opportunità del momento potranno suggerire la risposta adeguata. Ogni terapeuta assumerà la capacità di risposta che più gli è congeniale imparando ad utilizzare anche i suoi limiti nevrotici come strumento di terapia.

Concludendo mi sembra che la direzione ideale nel rapporto di terapia vada verso il pieno riconoscimento delle due individualità in relazione come persone reali, al di là delle maschere, con la reciproca accettazione di potersi separare in quanto pieni dell’incontro avuto e liberi di poter vivere esperienza io-tu, senza il filtro dei propri sistemi di riferimento.