Gestalt integrativa: l’incontro terapeutico
Pubblicato in: Dimensioni cliniche e modelli teorici della relazione terapeutica, a cura di Camillo Loriedo e Patrizia Moselli – Franco Angeli s.r.l. – Milano 2009
“L’uomo si fa da sé, attraverso le sue scelte: siamo liberi di operare le nostre scelte. È una libertà che costa, ma apre alle potenzialità e consente di realizzare la propria ‘cosa’.”
Premessa
La psicoterapia delta Gestalt si caratterizza per la sua visione dell’uomo piuttosto che per la teoria, la tecnica e la metodologia operativa, pur se furono proprio delle tecniche, come per esempio la sedia calda o l’identificazione nelle parti, che la distinsero e le dettero specificità. In realtà è l’insieme di principi e di valori ai quali si ispira che forma il nucleo organizzante di un approccio terapeutico che ha come interesse primario lo sviluppo e la crescita personale. Dicendo questo non escludo l’importanza di modalità di intervento che con forza ed efficacia agiscono sul disagio sintomatico. Ne abbiamo le prove e l’esperienza. Diverso tuttavia è quando trattiamo più profondi disagi esistenziali. La Gestalt partì da una matrice freudiana e si sviluppò negli anni Quaranta a opera di F. Perls, psicoanalista, unanimemente riconosciuto come suo fondatore. Ebbe diverse fonti di ispirazione, ma infine divenne un approccio del tutto originale e mantenne una propria identità unitaria, nonostante le scissioni che portarono alla definizione di filoni di scuola anche tra loro contrapposti. Certamente la fenomenologia che si respirava nell’aria e l’esistenzialismo che dominava la cultura del tempo ebbero spazio nella mente fertile di Perls, mentre negli ultimi anni della sua vita, quando divenne leader carismatico di Esalen, California, centro di risonanza mondiale nel campo dello sviluppo umano, fu presente anche l’influenza delle tradizioni orientali. La visione fenomenologico-esistenziale comportava uno spostamento di attenzione da quanto si nasconde a ciò che si manifesta. Per Heidegger assume rilevanza l’uomo e il suo essere al mondo, nella “medietà” del quotidiano e nella concretezza dell’esistere, calato nella realtà. L’uomo si fa da sé, attraverso le sue scelte. Sartre e l’esistenzialismo, sebbene con differenze, condividono. Non c’è da affidarsi a fattori preesistenti, “a priori” ai quali far riferimento, siamo liberi di operare le nostre scelte. È una libertà che costa, ma apre alle potenzialità e consente di realizzare la propria “cosa”. Perls propone come modello 1’essere “ontologico”, l’essere come si è, che implica l’accettazione del limite e invita alla trasparenza. La Gestalt di Perls è anti-ideale: le cose sono come sono. Non c’è da nascondersi per evitare il giudizio e il confronto con il resto del mondo e i modelli incorporati. Strettamente connesso è 1’invito alla responsabilità. Siamo responsabili per la nostra esistenza e capaci di rispondere a stimoli e provocazioni ambientali. Vale dunque la pena correre il rischio e vivere pienamente le proprie esperienze. Per farlo bisogna uscire dalla passività e dall’illusione che essa ci protegga. II tao, il buddhismo e le filosofie orientali in genere, dettero più spessore e profondità al principio di consapevolezza e alla concezione del “qui e ora”, che non consiste in un semplicistico vivere il presente, ma piuttosto in un vivere “presenti”, pienamente coinvolti nel succedersi delle esperienze, coscienti che ogni scelta è frutto della propria e deliberata volontà. “Awareness”, consapevolezza, è connessa alla saggezza organismica e quindi alla spontaneità naturale, da sola capace di guidare verso l’autorealizzazione. La tecnica gestaltica del1’esprimersi attraverso 1’identificazione con persone o cose, acquista una qualità superiore quando è permeata di detti principi. Diventa un invito a incarnarsi profondamente nell’altro da noi per conoscerne la natura e facendolo, il paziente diventa consapevole di cosa gli appartiene e cosa no. Reintegrando parti di sé apprende e si completa, sviluppa vitalità e dà significati alla propria esistenza. L’esperienza vissuta e poi assimilata, lascia uno spazio vuoto che può ricevere il nuovo. Nella pratica, coerentemente con i principi enunciati, la Gestalt si propose come approccio non interpretativo. L’attenzione del terapeuta è rivolta soprattutto a far emergere direttamente dal paziente consapevolezza e scelte. Questo ideale, pur se nella prassi non fu mai cosi rigidamente applicato, tuttavia costituì uno sfondo importante per spostare l’attenzione verso i potenziali e le capacità della persona, piuttosto che focalizzarsi sulla sua patologia. Tale atteggiamento stimola l’impegno alla crescita attraverso un’assunzione di responsabilità in prima persona. Sono poco utili le risposte preconfezionate e alimentano la passività introiettiva. L’uomo che sperimenta, assimilando le sue esperienze si dà significati. II principio enunciato non esclude che a volte il terapeuta possa indicare la via e suggerire cosa fare, appoggiando le scoperte e i tentativi di uscire dalle empasse paralizzanti. È importante dare permessi e protezione.
L’incontro terapeutico
Abbiamo un’implicita coscienza di essere coinvolti in fenomeni che superano la condizione individuale e fanno parte di un progetto del quale non conosciamo fini e principi. Tuttavia ne siamo partecipi e ne condividiamo le regole interattive. Voglio dirlo con le parole prese da un branco di Thich Nhat Hanh (1989): “Un poeta guardando questa pagina si accorge subito che dentro c’è una nuvola. Senza nuvola non c’è pioggia; senza pioggia gli alberi non crescono e senza alberi non possiamo fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. Si può dire che il foglio di carta esiste perché c’è la nuvola e quindi carta e nuvola intersono”. Seguendo questa logica, non possiamo “essere” solo in virtù di noi stessi. Intersiamo con ogni altra cosa. Riportando il discorso al tema più ristretto dell’incontro terapeutico, ogni volta che sediamo di fronte a un paziente, la nostra relazione è notevolmente più profonda di quanto al momento ci rendiamo conto e si articola in molte più direzioni di quelle che emergono nell’immediato. Le storie di entrambi, paziente e terapeuta, sono il frutto e portano i segni di tanti legami e tante connessioni. Ci sono regole che organizzano le nostre personalità e regole per i nostri incontri. Le interazioni avvengono su diversi livelli, riguardano ciò che si manifesta e lo sfondo che è dietro. E questo insieme di figura e sfondo, che si riferisce all’individuo, interagisce con l’altro individuo, paziente o terapeuta che sia. Poi c’è il contesto, che nel caso specifico è il setting, inteso come il modo di organizzare la terapia e i suoi luoghi, ma che, in senso più ampio, le forme della relazione. Siamo coinvolti in un fenomeno complesso e se l’attenzione si ferma a ciò che si manifesta, perdiamo il contenuto che lo struttura. La connotazione fenomenologica della Gestalt non esclude gli approfondimenti. Per dirlo più chiaramente porto un esempio a partire da una modalità di lavoro tipica di questa terapia, per poi allargare il discorso a ulteriori implicazioni. Un piccolo gesto, un movimento inconsapevole fatto dal paziente, attraverso contatti successivi, ci porta all’intero. Focalizzandosi sulle labbra che inconsapevolmente si contraggono, attraverso passaggi successivi, il paziente può sperimentare un sentimento di aggressività. Per quanto sto proponendo questo non è sufficiente, non basta il solo contatto con lo stato emozionale o la sua espressione, ci interessa collegarlo a un contesto per conoscerne le motivazioni. A livello più profondo vogliamo individuare i costrutti arcaici della personalità e le posizioni esistenziali sulle quali si basano. Così facendo proseguiamo fino ai fondamenti. Con la consapevolezza di tutto ciò, conseguita strato dopo strato, potremmo procedere per ristrutturare le regole organizzative che danno vita a quel segno, in questo caso, un movimento delle labbra apparentemente senza significato, e infine dare spazio a una nuova forma. A partire dalla figura ci connettiamo con lo sfondo e così integriamo le due dimensioni che di fatto costituiscono una complessità interattiva. Il paziente non sta soltanto producendo un sintomo o manifestando un gesto. Questi elementi sono connessi a storie più complesse e sono parte di un insieme organizzato. I nostri sensi stabiliscono il primo contatto, ma a noi interessano anche le strutture della personalità e diamo importanza alle matrici relazionali. La relazione terapeutica è effetto dell’incontro di due persone che hanno una loro struttura e una loro funzione, le due persone, paziente e terapeuta, insieme formano un contesto. Struttura e funzione sono esse stesse interattive, si alimentano e si sostengono a vicenda dando vita a Gestalt che tendono a conservare un assetto stabile. Quando terapeuta e paziente si incontrano è prima l’organizzazione interna di entrambi che viene sollecitata e poi ne deriva il fenomeno che si manifesta. Quindi ci interessa anche sapere in che modo funziona la struttura. Il significato fenomenologico, in questa ottica, è più vicino alla concezione di Berne, mutuata dallo psicanalista P. Federn, che considera fenomeni le esperienze effettivamente vissute e poi incorporate, “pezzi di realtà” che vengono fatti stabilmente propri, organizzandosi in stati dell’Io che entrano a far parte dell’intera personalità e ovviamente determinano le forme della relazione. Nell’ultima opera postuma, L’eredità di F. Perls, il fondatore della Gestalt fu molto chiaro sull’importanza dei contenuti. Non ci limitiamo soltanto ai modi di funzionare: “Esaminiamo la struttura, quando comprendiamo la struttura allora possiamo cambiarla”. È la struttura che cerchiamo nella terapia della Gestalt, la struttura che ci interessa di più è la struttura del copione della nostra vita. Cioè la struttura di come evitiamo 1’immediatezza dell’esperienza. In conclusione possiamo affermare che il processo terapeutico si sviluppa lungo un continuo circolare tra passato e presente, tra ciò che si manifesta oggi, e le cause che lo hanno originato. In tale contesto si inseriscono i reciproci vissuti di paziente e terapeuta. I fenomeni transferali e il vero della relazione che emerge nel qui e ora, sono fattori fondamentali per stabilire una buona alleanza terapeutica. II trattamento dei fenomeni transferali permette di ristabilire una relazione sempre più autentica che unita alle consapevolezze conseguite attraverso l’esplorazione dei propri aspetti copionali, favorisce il cambiamento. Ma serve di più. La comprensione profonda che il nuovo non è definitivo ma anch’esso soggetto a mutamento, aumenta la flessibilità e un atteggiamento di maggiore accettazione verso l’esistenza, che per sua natura è in un continuo fluire. AI contrario nel tentativo di creare certezze e mantenere il controllo, tendiamo a irrigidirla in forme che appaiono illusoriamente stabili.
Interazioni sottili
Oggi l’area di intervento della psicoterapia è molto più ampia rispetto a quella delle origini. Ciò che apparteneva alla spiritualità o all’esoterismo è entrato come influenza nei modelli terapeutici e anche come strumento per l’esplorazione di aspetti più sottili della personalità. Continuando il discorso sulle interazioni, sarebbe irrealistico pensare di poterle osservare e controllare tutte. Ai fini terapeutici è noto che agendo soltanto su alcuni schemi intere forme si riorganizzano, coinvolgendo più catene associative. Tuttavia, aumentare lo spettro delle aree di possibile attenzione, dà spazio alle potenzialità e amplifica i campi di intervento. Tutti abbiamo conoscenza di esperienze di comunicazione non spiegabili da un punto di vista strettamente razionale. Questo avviene in maniera evidente nella relazione terapeutica e su più vasto raggio, mediante un legame che tutti ci unisce, attraverso l’inconscio collettivo. B. Hellinger, terapeuta vicino al mondo della Gestalt, parla di movimenti dell’anima, attraverso i quali nelle Costellazioni familiari che inscena, i partecipanti spontaneamente interagendo con sconosciuti che funzionano da rappresentanti casuali di persone appartenenti a famiglie diverse dalle loro, svelano storie e “segreti” di pazienti che assistono dall’esterno alla rappresentazione che li riguarda. Hellinger suppone che esistano tracce di esperienza lasciate anche da persone appartenente a generazioni precedenti che mantengono una connessione con la realtà attuale, attraverso legami intergenerazionali che possono essere evidenziate trattati in terapia. Su basi simili si muove la lettura dell’albero genealogico che fa Jodorowsky, il famoso regista della Montagna sacra e di El Topo. Ricercatore appassionato di esoterismo, magie e misteri, allievo di curanderos, Jodorowsky cura sintomi, anche invalidanti, basandosi su simbolismi antropologici e tecniche ipnotiche accompagnate da una forte componente rituale. Tutto ciò viene sintetizzato in compiti specifici per il paziente che lui chiama “psicomagie”.
Relazione e soggettività
Parlando di relazioni non va sottovalutata la soggettività, come a volte è successo nelle rivisitazioni della psicoanalisi e della stessa Gestalt. L’individuo esiste come complessità, nella quale si manifestano sia la “mente monadica” che la “mente in relazione”. Mitchell, rappresentante di spicco della psicoanalisi relazionale, critica quegli approcci che si situano troppo drasticamente verso l’individuo o verso il rapporto con l’altro, stabilendo divisioni tra quanti come Freud considerano “la mente essenzialmente monadica” che “emerge sotto forma di pressioni endogene”, e i teorici relazionali che “la considerano diadica e interattiva”. Non mi sembra che i punti di vista possano essere cosi marcatamente alternativi. Se è vero che l’esperienza si struttura attraverso 1’interazione, è altrettanto vero che a questo processo l’individuo partecipa molto attivamente. Le esperienze interne, frutto degli istinti, per quanto represse esse siano, sono fattori che danno forma all’esistenza e ai modi della relazione. II cervello arcaico, rettiliano, influenza la neo-corteccia e gli adattamenti nel qui e ora. Spinte e pulsioni vanno insieme alla necessità di contatto con l’altro, cosi come i bisogni di legame e quelli di differenziazione. In sintesi ritengo che la relazione non costituisca una realtà “terza”, rispetto a coloro che la determinano. Nelle fasi evolutive facciamo esperienze con il mondo esterno e poi, il frutto di queste esperienze lo incorporiamo. Come già detto, sono “pezzi” di realtà nei quali ci identifichiamo e che ci strutturano la vita. Le decisioni finali sul come questo accadrà, in ogni caso, appartengono all’individuo, al soggetto, pur se frutto di un’interazione. Quando terapeuta e paziente interagiscono per il cambiamento, quel che avvenne nelle prime fasi evolutive, nell’interazione con le figure genitoriali, tende a ripetersi. Anche se il processo è influenzato e modellato dal terapeuta, e quindi dalla relazione con lui, il risultato finale è comunque frutto delle elaborazioni interne del paziente. È vero, è stimolato dall’esterno, ma resta unico responsabile delle scelte sul come riorganizzare la propria esistenza. Con altra ottica ma con simili conseguenze, Wainstein afferma che: “La realtà in cui viviamo è la costruzione di un organismo che si autoregola e non ha alcuna particolare relazione con una realtà ontologica che sta là fuori (…) la situazione clinica dipende dal punto di vista dell’osservatore”. Lewin, psicologo della Gestalt al quale si ispirò il nostro approccio, mise in evidenza quanto “gli obiettivi personali” influenzino il campo. Un covone di fieno assume valore diverso a seconda se si tratti di un campo di battaglia, nel quale potrà essere individuato come possibile rifugio o se abbia altra destinazione che implicherà l’emergere di funzioni diverse. “II bisogno organizza il campo”. Goldstein conferma il soggettivismo di Lewin, dimostrando che vi è una gerarchia di bisogni che determina le caratteristiche dell’interazione. II soggetto si adatta al contesto e adatta il contesto a se stesso. Tutto questo conferma quello che io considero fondamentale nell’atteggiamento gestaltico: compito del terapeuta è quello di creare situazioni di apprendimento attraverso le quali il paziente si possa orientare. Sollecitiamo risposte piuttosto che proporle. L’importanza del rispetto della soggettività viene ulteriormente affermata dagli esperimenti di Heinz Von Foerster per quanto concerne la qualificazione della realtà. Dalle sue ricerche risulta che i segnali sensoriali arrivano indifferenziati alla corteccia. Questo coincide con quanto dimostra Maturana: i colori non sono negli oggetti ma vengono selezionati nella corteccia, è lì che un colore si qualifica come verde o rosso. Discorso analogo si può fare per la costruzione della realtà psicologica. Va anche realisticamente considerato che il paziente è in uno stato di necessità e di dipendenza, per cui il terapeuta, come altro polo della relazione, può influenzarlo, soprattutto in quei casi in cui, per uno sviluppo inadeguato, la capacità di scelta è solo potenziale. Per evitare questo, Berne propone un principio di contrattualità che regolamenta il rapporto terapeutico, non solo per gli aspetti amministrativi ma anche per quelli che riguardano il percorso psicologico. I soggetti nella relazione assumono pari responsabilità relativamente al risultato e un reciproco impegno a collaborare. Infine, suggerisce Berne: il terapeuta segua il paziente, “tre passi indietro”.
Non lo preceda e non tracci lui il percorso, ma piuttosto sostenga il processo.
Struttura e copione
È necessario fare spazio alla spontaneità creativa per favorire l’elaborazione di nuovi stili di vita. L’impegno della Gestalt è in due direzioni: destrutturare le forme irrigidite e non più adeguate, per aggiornarle e trasformarle in modelli esistenziali più efficaci. È necessario aprire strade alternative, anche a partire dallo sconosciuto. A questo scopo è importante che il paziente sviluppi la capacità di rischio e risvegli la sua creatività. Il terapeuta lavora per attivare la consapevolezza, stimola l’attenzione al presente, spinge alla responsabilità e utilizza le sue competenze come linee guida per facilitare il cambiamento. Per destrutturarla bisogna conoscerla la struttura. La teoria del copione di Berne offre un modello molto articolato e concepito in termini fenomenologici, sul come è organizzata la personalità. I fattori relazionali e quelli individuali trovano entrambi spazio e sono strettamente interconnessi. I primi schemi, prototipi delle future mappe esistenziali, si costituiscono per incorporazioni di esperienze che derivano dal nostro contatto con il mondo esterno e sono protocolli fondanti per le tappe successive. Ovviamente non si tratta di semplici stimoli, ma di vissuti complessi con figure significative dell’infanzia, che facilitano o meno lo sviluppo del desiderio di vivere, di far parte, il riconoscimento della propria identità sessuale, il diritto di pensare, di essere come si è e così via. Quindi dalla relazione dipende la qualità della crescita e l’apprendimento dei diritti fondamentali per l’esistenza.
Attraverso l’incorporazione l’esterno si fa interno e dopo essere passato attraverso il filtro interpretativo del sistema di riferimento di ciascun individuo, la struttura così costituita diventa strumento fisso per la lettura delle esperienze individuali e relazionali. In pratica, nelle prime fasi evolutive mettiamo le basi per i nostri copioni di vita. II bambino molto presto forma convinzioni e prende decisioni sui modi che ritiene più efficaci per esistere e avere un suo spazio nel mondo. Uno dei compiti della relazione terapeutica è quello di mettere in crisi la visione del paziente e i suoi modi arcaici e quindi disfunzionali di vivere. Quando il piano esistenziale venne organizzato, partendo da specifiche credenze su se stesso, gli altri e la vita, convinzioni prese sulla base di pensiero immaturo e generalizzante, e di stati emozionali sostenuti da una condizione di dipendenza e di necessità, queste scelte apparvero le migliori. Furono latte per ottenere il maggior vantaggio con il minor danno possibile. Poi divennero ripetitive, imprigionate nella coazione a ripetere. Prevalse la paura di uscire dallo schema, che seppure non più soddisfacente, in ogni caso rassicurava, perché seguiva tracce conosciute. Il sistema di riferimento è protettivo e la coazione a ripetere ha una forte funzione conservativa, con il rischio incluso che poi si trasformi nell’illusione di garantirsi l’esistenza mantenendo lo status quo. Con questo artificio cognitivo il paziente si oppone al cambiamento. Nella relazione terapeutica assumiamo il compito di aggiornare il passato e le strutture che non sono più funzionali. Non inventeremo nuove verità, che dureranno per sempre. II paziente dovrà apprendere a essere flessibile, sapendo che ogni nuovo equilibrio andrà verificato e aggiornato, perché cambieranno le circostanze.
Gli strumenti della terapia
Perls dette molta importanza allo sviluppo personale e ritenne che il principale strumento della terapia fosse il terapeuta stesso. A chi gli chiedeva cosa desse tanto impatto al suo lavoro, era solito rispondere: ‘ho occhi per guardare e non ho paura”. È quanto basta per essere un buon terapeuta? Certamente no, ma in Gestalt diventa un’attitudine che predispone a esserlo, favorendo un tipo di relazione che riflette i modi di un rapporto reale. Il silenzio partecipativo, non distratto, guidato da presenza, che Naranjo ha mutuato dalle tecniche meditative e propone come esercizio per la formazione di terapeuti, può trasformarsi e sfociare in una “certa trasparenza”, quando lo stesso terapeuta condivide i propri vissuti e gli stati emozionali che nascono dalla relazione. La sua apertura stimola il paziente a esporsi di più e il setting diventa vivo, la relazione si fa più vera. È una possibilità che dà spessore al rapporto e va gestita in maniera opportuna, seguendo le circostanze. In ogni caso il gestaltista tende a intervenire stabilendo contatti diretti. Perls propose di reagire al paziente con simpatia e frustrazione. Traduco queste sue indicazioni nella metafora della madre accogliente nutritiva e del padre che guida e indica la via, simbolicamente rappresentati dal terapeuta che riassume le due funzioni. L’atteggiamento tenero e accogliente fa da complemento all’altra attitudine, più rischiosa, stimolata da chi spinge verso il nuovo, alla scoperta di orizzonte alternativi. Entrambe le vie aiutano a crescere. La frustrazione mette in crisi gli adattamenti inefficaci e le manipolazioni, confrontando la passività. Di fronte alle resistenze difensive che il paziente oppone alla consapevolezza, il terapeuta dichiara apertamente il suo “no”, gli toglie gli appoggi, dimostra chiaramente l’assurdo e l’irrazionalità della sua posizione. Frustra l’ego per provocare una reazione vitale. È come togliere il terreno da sotto i piedi. Ciò che il paziente non tollera è di restare senza appoggio, nel vuoto. Ha paura, ma sarà proprio la perdita di riferimenti a spingerlo a cercare nuove soluzioni. Con l’altra mano il terapeuta è più tenero, offre calda accoglienza e protezione. Comprende e sostiene permettendo condivisioni più profonde e l’espressione di sentimenti genuini di dolore, di rabbia, di paura, ma anche di gioia. Nel rapporto di tipo dialogico, quando non si utilizzano tecniche espressive, come per esempio le drammatizzazioni tipiche del repertorio gestaltico, mi sembrano di particolare rilevanza l’ascolto, che ho precedentemente proposto e l’uso della forma interrogativa. II paziente che può esprimersi e raccontarsi, ascoltato si ascolta e rivelandosi a se stesso diventa consapevole. Il racconto autobiografico è tradizionalmente una metodologia di autoconoscenza che il bambino di tre anni a suo modo già pratica. Esprimendo ad alta voce le proprie vicende ancora frammentate, il paziente acquista coscienza di sé. Il terapeuta non è il narratore ma riceve la storia del paziente e ricevendola, con le sue reazioni, silenziose o espresse, diventa coartefice delta narrazione. All’inizio le storie terapeutiche sono prive di trama e l’energia emozionale è disturbata, il paziente non è ancora in contatto con i suoi vissuti più genuini. Le componenti manipolative e le resistenze hanno il sopravvento su altre emozioni più naturali. I personaggi sono privi di spessore e tutto il racconto manca di vitalità, perché i fatti, i sentimenti e i pensieri significativi, sono sullo sfondo, come presenze nascoste, il paziente diventa più vitale e trasmette esperienza quando incomincia a mostrarsi per quello che è e a elaborare un nuovo racconto di sé. Via via la figura in primo piano si arricchisce di sfondo e la storia, si riempie di contenuti. Le vicende, rimaste celate tra i ricordi, assumono significato. Contengono in sé l’energia per la trasformazione e preannunciano un finale diverso. Come si fa con un film in bianco e nero quando viene restaurato e mettiamo i colori.
Se riempiamo i vuoti, i racconti dei pazienti assumono spessore, prendono forma di vicende reali e il passato assume nuove connotazioni. Quando attraverso il simbolismo dell’operare terapeutico favoriamo 1’espressione di nuovi stati affettivi nei confronti di figure importanti dell’infanzia, anche i ricordi si aggiornano. Riparando nel presente ciò che avvenne nel passato, le identificazioni e le incorporazioni assumono altre qualità e cambia il vissuto della propria storia. Quando usciamo dal silenzio dell’ascolto e facciamo domande mirate, il lavoro diventa focalizzato e ci aspettiamo risposte che permettano di favorire collegamenti, riempire “buchi” e attribuire significati. La domanda diretta offre poco spazio per 1’evasione e l’evitamento. In questa fase il terapeuta e più attivo e si avvale della sua competenza e intuizione. Chiedere “cosa provi, cosa sperimenti”, ha un forte impatto, provoca uno shock immediato, mette in contatto con i vissuti interni dai quali il paziente si è allontanato. Fa emergere emozioni inespresse che vengono portate nella relazione. L’attenzione al contatto emozionale caratterizzò per molto tempo la terapia della Gestalt tanto da oscurare l’importanza dell’aspetto cognitivo. Si è creduto che esprimere emozioni fosse di per sé curativo. Di fatto sentimenti e mondo cognitivo sono strettamente interconnessi e altrettanto importanti sono le domande: “cosa ne pensi”, “come te lo spieghi”, “quali convinzioni hai maturato su di te a seguito di…”; domande che sollecitano risposte attraverso le quali si struttura il pensiero, si facilita l’attivarsi di nessi logici e si scoprono le regole organizzative della struttura. Ritengo importante l’aspetto analitico come complementare alle forme espressive. Wertheimer scoprì, viaggiando su un treno, che i pali della luce con il movimento tendevano ad apparire un unico palo; di qui gli sviluppi successivi e la teoria che portò a concepire un principio integrante per il quale i dati grezzi vengono percepiti in una forma unitaria. Percepiamo la totalità ma in seguito subentra l’attenzione ai componenti, “l’esperienza precede le parti” e quando dopo il primo sguardo complessivo guardiamo un quadro punto per punto, l’insieme risulta arricchito. La figura si riempie di sfondo e il quadro acquista pregnanza. Processo analogo si verifica quando con il paziente ci permettiamo di esplorare gli aspetti costitutivi della personalità.
Il lavoro terapeutico diventa allora un insieme equilibrato di esperienza e di approfondimento analitico, di attenzione alla globalità e di focalizzazione sugli elementi.
Le modalità di intervento sono effetto del modo di concepire la terapia ed è su queste stesse basi che si costruisce l’alleanza terapeutica. La relazione ha bisogno di alleanza. Questa esperienza si instaura innanzitutto quando il paziente e il terapeuta condivido un accordo per effetto del quale ricevono reciproche soddisfazioni. L’impegno contrattuale oltre a stabilire i termini concreti della relazione della sua gestione amministrativa, si rinforza quando il paziente assume peso nel rapporto e condivide con il terapeuta la responsabilità per il cambiamento. I fattori dell’alleanza sono molteplici e forse possono essere riassunti in un unico principio: creare una situazione di scambio nella quale entrambi sentono interesse e curiosità per l’altro.
Questo risultato può essere realizzato in molti modi il terapeuta lo facilità con intuito, competenza e creatività. Nel momento pieno dell’alleanza il messaggio del terapeuta è del tipo: “ci sono per te” e quello del paziente: “sento gratitudine per quello che fai”. La relazione efficace non è costante e va costruita momento per momento. Il paziente arriva noi condizionato, in misura più o meno grande da immagini arcaiche di fate, mostri e streghe, costrutti condivisi ai quali si ispirano le favole. Quando queste forme prodotte dalla fantasia dei bambini vengono assimilate, si rinforza il senso di realtà. Quando invece si fissano e vengono a far parte del mondo dell’adulto, Allora ci si affida alla magia, e l’esistenza dipende da “altro” che non si può controllare. Quello che succede non viene concepito come effetto delle nostre scelte e si radica l’idea che ci governano gli eventi e le persone. Il quadro interno trova un suo riflesso nel mondo esterno. Originariamente le visioni interne si sono ispirate alle vicende esterne, filtrate da spinte irrazionali che hanno prodotto simboli e significati di portata ben più grande della realtà effettiva. Le introiezioni sono diventate un sistema di riferimento per il contatto con il mondo. Troviamo l’aspetto simbolico di quanto dico nella storia di Sirenetta, la sirena che ottiene dalla strega di diventare donna e per questo perde la bella coda e la voce. Sirenetta vuole l’amore di un principe che però non accoglie i suoi desideri e per questo è condannata a sciogliersi nelle acque del mare, pena che aveva pattuito con la strega in caso di insuccesso. Infine si salva con il soccorso delle “figlie dell’aria” che la portano su, negli spazi del cielo, dove Sirenetta dimorerà per molti anni e infine sarà riscattata.
E la storia di tanti pazienti che giungono in terapia con l’idea magica che qualcuno li salverà e se questo non accade il terapeuta è cattivo, e a volte incapace perché non mantiene la promessa immaginata. In realtà il paziente coltiva un’illusione e al terapeuta tocca fornire l’antidoto: offrire un rapporto con responsabilità condivise, lui non può salvare ma può attivare gli strumenti perché il paziente lo faccia e perché succeda, prima di ogni altra cosa, occorre la voglia di lavorare insieme. Recentemente con un paziente fortemente disturbato, ma colto e intelligente, l’alleanza si è formata presto e, al di là di ogni aspettativa, sono venuti anche i risultati. Mi ha chiesto terapia dicendomi che aveva letto libri di Gestalt ed era stato colpito dalla tecnica delle due sedie usata per integrare le arti. Voleva fare questo tipo di lavoro con me, sentiva il bisogno di mettere insieme aspetti polari delta sua personalità. Aveva sintomi gravi, dormiva molto poco svegliandosi a ogni ora. In più era da anni “perseguitato” da un clan di delinquenti che gli faceva dispetti di ogni specie: addirittura erano andati ad abitare sopra di lui per disturbarlo con rumori di ogni tipo, di giorno e di notte. Di fronte alle mie titubanze ad accettare la sua versione si irrigidì molto. Mi chiese insistentemente di telefonare al terapeuta che lo aveva tenuto in cura per molti anni, perchè mi desse conferma di quanto mi diceva. Mi disse che anche 1’altro terapeuta inizialmente era stato dubbioso e aveva pensato a forme patologiche, però con il tempo si era convinto della verità di quanto lui gli riferiva. Dopo alcune sedute presi una posizione più decisa e gli dissi che forse era vero quello che lui affermava e che però l’esperienza mi suggeriva che potesse esserci 1’intervento della sua fantasia e che quindi avrei lavorato anche in quella direzione. Ci rimase male, era deluso. Se non gli credevo doveva lasciare la terapia, mi disse, e teneva molto alla Gestalt.
Ci furono momenti di forte tensione. Voleva convincermi, doveva convincermi e lo faceva con energia. Non volevo che se ne andasse e trovai un escamotage: “Bene”, gli dissi, “facciamo un patto. Lei ha bisogno di terapia in ogni caso. Per sei mesi lasciamo il problema del clan fuori dalla porta. Ogni volta che lei viene qui, prima di entrare, lascia il problema fuori dalla porta e quando se ne va se lo riprende. Nel frattempo lavoreremo su altro”. Fu d’accordo. Avevamo una mediazione accettabile. Sono trascorsi alcuni mesi e il “clan” è entrato solo poche volte nelle nostre sedute, ma subito lui stesso mi diceva: “Però lasciamo stare, sono quelli che stanno fuori dalla porta” e una volta in un lapsus mi disse: “Quelli che sono nella mia mente”. Non so come andrà. Nel frattempo abbiamo fatto un buon lavoro. Ho vinto il braccio di ferro con lui che ora sente di potersi affidare. Aveva bisogno di un appoggio forte e non di un terapeuta che si lasciasse irretire, come nella precedente esperienza. Abbiamo anche un risultato. Dopo una seduta focalizzata sui continui risvegli, fatta con una tecnica di dialogo delle parti, semplificata per lui, fece un patto tra chi gli impediva il sonno e l’altro che voleva dormire: quello di svegliarsi ogni due ore anziché dopo una. Quella notte dormì tre ore di seguito e oggi cinque o sei ore, senza interruzioni. Non è nei panni per questa conquista e parla di miracolo. A favore del risultato, dietro la tecnica, è intervenuto il nostro rapporto. Fin dalle prime sedute mi aveva chiesto di sperimentare la drammatizzazione dei ruoli facendo parlare tra loro le parti della personalità. Gli dissi che avrei stabilito io se e quando farlo, questo entrava nelle mie competenze e non nelle sue. Temevo anche che per il suo stato potesse avere delle reazioni negative da quel tipo di lavoro. Stabilito con chiarezza che avrei guidato io la terapia, cominciai però a sperimentate piccoli dialoghi con le due sedie. Non gli dicevo “no” per capriccio, come terapeuta volevo proteggerlo e guidarlo. D’altra parte era importante che si affidasse e che non mi vivesse come un aguzzino. E alla fine fu proprio la tecnica delle due sedie, quella per cui era venuto in terapia proprio da me, che portò al risultato sul sintomo.
L’importanza del setting
Alcuni filoni delta Gestalt propugnano la necessità di una “teoria forte”. Personalmente lo ritengo un po’ paradossale in un tempo in cui piuttosto che appoggiarsi a modelli precostituiti si fa sempre più riferimento a ciò che effettivamente avviene nel setting, nel contatto diretto con il paziente. Di fatto ogni terapeuta riorganizza i concetti teorici ai quali si ispira usando modalità sue proprie e mantiene, tuttavia, coerenza con il modello originario. Perls volle una teoria per dare al suo approccio una credibilità accademica, ma poi l’abbandonò prediligendo, come via per il cambiamento, la conoscenza di sé. È noto che terapeuti esperti appartenenti a scuole diverse, indipendentemente dalle teorie di riferimento, fanno cose simili. Faccio questa premessa per dire che non sono cosi convinto che lo sforzo ermeneutico ed epistemologico di alcuni filoni della psicoterapia della Gestalt sia poi così produttivo quanto si crede. Non perché la teoria in sé sia inutile, a condizione che la si consideri un “ornamento”. Come i fiori di una pianta e non le sue radici, suggerisce Naranjo. Ma soprattutto perché non sono convinto che si debba dare tanto rilievo alla teoria del contatto. Intendiamoci, anch’io ritengo che l’attitudine al contatto con persone e cose sia un aspetto fondamentale dell’esperienza umana e determinante per la stessa sopravvivenza. Non credo, tuttavia, che possa diventare il nucleo portante di una teoria della personalità adeguata alla complessità del discorso gestaltico. II contatto si sperimenta nel qui e ora e già diventa una metafora quando trattiamo di intendere le strutture, o quando ci occupiamo dei valori, delle potenzialità e dei fattori esistenziali, e quando infine vogliamo conoscere le regole che organizzano le Gestalten, o vogliamo individuare le scelte esistenziali che hanno strutturato l’adattamento. L’esperienza di contatto andrebbe inserita in un sistema più organico, come una parte di esso e non come il fattore portante. È ancora troppo legata a una concezione di tipo pulsionale, pur se il contatto avviene in relazione. Essenzialmente, nella teoria che si è diffusa, viene riferito alle modalità attraverso le quali il bisogno va in primo piano, viene soddisfatto o meno, si esaurisce o resta fissato. Ma il processo di crescita prevede l’attivarsi di altre potenzialità che sono più vicine ai temi della realizzazione, dell’intenzionalità, dello sviluppo personale e dei significati che assume uno specifico progetto esistenziale. La teoria di un Sé che esiste al confine del contatto mi sembra riduttiva, così come voler individuare “luoghi” del contatto. Si tratta forse di metafore? Troppe domande restano senza risposta. Quella del contatto è un’esperienza che non può essere collocata in un posto, il contatto è permeante. I flussi di interazione seguono andamenti circolari, lungo innumerevoli linee di comunicazione. Nel contatto siamo qui e lì allo stesso tempo, è un’esperienza della coscienza, non solo degli organi della percezione.
L’interruzione dell’alleanza: fenomeni transferali
Tornando alla relazione, il transfert, da un punto di vista gestaltico, potrebbe essere definito come l’infiltrazione inconsapevole di parti dello sfondo nella figura. In pratica pezzi del passato entrano nel presente e determinano un’interruzione dell’alleanza, mettendo una barriera alla fluidità del rapporto. È sostanzialmente un fenomeno di trasferimenti di cui cogliamo in prima istanza gli stati emozionali connessi e solo in seguito la storia e i significati. La sua analisi divenne uno strumento importante perchè portava nel presente, in maniera indiretta, le vicende del passato quando non era possibile attingere direttamente dai ricordi del paziente. II transfert era oggetto di interpretazione così come ogni altro materiale. Oggi, tra gli stessi psicoanalisti, ci sono varie ipotesi su come vada utilizzato. Mitchel stabilisce una netta distinzione tra il modello pulsionale e quello relazionale. II pulsionale si occupa dell’innato mentre il relazionale dei significati che nascono dalla relazione. Nel primo modello il transfert viene descritto come il ripetersi di un’esperienza di “desideri e paure infantili” che avvennero nel passato e si rinnovano nella relazione con l’analista, persona sulla quale il paziente proietta ciò che provava per suo padre e per sua madre. Secondo Glover, attraverso l’interpretazione del transfert, possiamo richiamare un’ “esperienza affettiva che collega il passato al presente”. Nel modello pulsionale le indicazioni su cosa fa l’analista prevedono che mantenga razionalità neutrale senza cedere a reazioni affettive. “II suo stato emotivo deve essere di compostezza, obiettività e neutralità”. Nel modello relazionale, invece, le modalità di gestione sono più articolate e il transfert è strettamente connesso al controtransfert. L’analista ha più spazio e può reagire in maniere diverse ai vissuti del paziente. Non solo interpretazioni neutrali ma anche reazioni empatiche. È importante trovare un equilibrio tra l’essere “né fusi né distanti, né seduttivi nei rifiutati, né vittime né carnefici” e lo stesso Mitchell, propone che l’analista esprima una “curiosità sincera”. Quindi, nelle concezioni relazionali l’analista non resta necessariamente freddo e neutrale, ma partecipa con più sfumature di reazione all’evento che lo coinvolge. In Gestalt non si è aperto un discorso chiaro su questo tema. La filosofia della trasparenza porta a concepire scambi rivolti alla soluzione immediata delle difficoltà che nascono nel rapporto, parlando da persona a persona. Tuttavia il fenomeno esiste e produce degli effetti che vanno considerati. In presenza del transfert, sia il paziente che il terapeuta quando sperimenta il controtransfert, si sono allontanati dalla relazione specifica, attiva nel qui ed ora, e sono coinvolti in vissuti che storicamente appartengono al passato.
In pratica vivono una sconnessione temporale. Stati di coscienza arcaici si infiltrano nel presente. Materiale che appartiene allo sfondo emerge senza consapevolezza e si manifesta in maniera incongrua venendo in primo piano. Si attiva un ponte tra passato e presente e il fenomeno mette in crisi l’alleanza terapeutica che può essere ricostruita soltanto elaborando un’effettiva separazione tra quanto appartiene a ieri e quanto a oggi. Inoltre il transfert contiene un aspetto difensivo: è rassicurante ripetere esperienze emozionali già note piuttosto che affrontare nuove possibilità d’incontro. Ai fini terapeutici permette di aprire a problematiche più nascoste e da ciò che si manifesta consente di guardare ai contenuti strutturali, per esplorarne le influenze del presente. Il paziente può fare esperienza diretta delle tematiche emergenti e a questo scopo la tecnica gestaltica offre diverse possibilità. In alcune fasi del lavoro scelgo di stabilire un legame con il passato andando a una scena protocollare, nella quale sono attivi gli stessi vissuti che si manifestano nel setting. La scena viene vissuta attraverso la drammatizzazione dei ruoli, in maniera più o meno attiva secondo le circostanze. La consapevolezza e i significati che emergono permettono al paziente di stabilire collegamenti e di osservare come quelle vecchie esperienze stiano influenzando la sua vita attuale e in particolare la relazione con il terapeuta. Un’altra modalità può essere quella di trattare immediatamente il problema attraverso un confronto diretto. Al paziente viene chiesto di guardare il terapeuta ed esprimere ciò che effettivamente vede e sente, al di là dei pregiudizi. Così apprendere a stare nel presente e a vederlo per la persona che è, differenziandolo dalle immagini che gli evoca. Questa procedura, che può essere attuata con diverse modalità, facilita il ricostituirsi della relazione su basi più vere. Poi la terapia proseguirà sugli aspetti strutturali che contaminano il presente e dalla relazione si passerà all’intrapsichico. In certi casi, gli atteggiamenti di rifiuto o di eccessivo attaccamento per il terapeuta, sono effetto del trasferimento su di lui di un aspetto mancante del genitore. La Gestalt è attenta a ciò che manca e anche questo può produrre transfert. Se il padre, per esempio, fu particolarmente disponibile, permissivo, poco presente, e non espresse le sue parti complementari, le altre polarità, può accadere che il terapeuta venga vissuto come estremamente severo o addirittura punitivo, non avendo il bambino fatto esperienza di un’effettiva severità e chiara disciplina. Viceversa, se il padre fu motto severo o violento, il terapeuta può essere oggetto di idealizzazione e, perlomeno per un tempo, molto amato. Per compensazione la parte carente del genitore, che il bambino non ha potuto vivere, viene proiettata sul terapeuta. Le Gestalt non completate si chiudono anche in maniera artificiosa, aggregando realtà simboliche o inventate a quella effettivamente vissuta.
In un gruppo di terapia L. ha appena rappresentato il ruolo del padre di un’altra partecipante. Si è messo in una posizione forte, sfidante. L’ho invitato ad abbassare la testa e a inchinarsi davanti a lei per ragioni che riguardavano il tema del lavoro. Finita l’esperienza L. sentiva molta agitazione. “Vivila”, gli dissi. Incominciò a muoversi come un uccello, simulando il movimento delle ali. Minaccioso si avvicinava e si allontanava da me, “famelico” e con un risolino beffardo. Io lo fermavo sollevando un piede ogni volta che mi veniva troppo vicino, per subito riabbassarlo. In questo modo gli davo un limite. Via via si avvicinava sempre di più. Sentivo allarme ma non paura. Mi stava sfidando ed era un’esperienza nuova per lui. Tastava le mie forze e io lo controllavo dandogli spazio ma nei limiti che io decidevo. Infine si ritirò e gli chiesi perché mi avesse aggredito. “Non lo so”, rispose. Era consapevole di farlo ma non conosceva le ragioni. “C’è qualcosa che ti riporta a tuo padre?”. “No, non era possibile, non avevo questo contatto”. Continuando l’elaborazione emerge che non rappresentavo il padre reale, ma il padre non avuto, quello che mantiene la posizione in maniera ferma, con coraggio. Un transfert polare. Ero diventato il padre con cui misurarsi perché gli dessi finalmente quei limiti di cui aveva bisogno. “Io distruggo o mi faccio distruggere”, aggiunse, “non conosco vie di mezzo”. Lavorando con lui gli ho offerto un modello alternativo e gli ho proposto una nuova alleanza. II messaggio che gli ho inviato è del tipo: non voglio trattenerti, ti permetto di esprimere 1’aggressività, ma la contengo. Considero questo un momento importante per la sua crescita, anche se vive un’esagerazione e si identifica con uno sparviero predatore per affrontarmi. Oggi si consente di sfidare il padre, si misura, e l’ex alcolista che si distruggeva bevendo, sempre più si apre al mondo e cerca modi nuovi per farlo: lo apprende con il terapeuta. La considero una seduta significativa anche per un altro aspetto, rilevante nella terapia della Gestalt. Ho lavorato facendomi guidare dai miei vissuti interni. Il controtransfert, inteso in senso ampio, consente di seguire il paziente a partire dalle proprie reazioni. In questo modo, paziente e terapeuta lavorano insieme e nei momenti migliori il loro incontro diventa come una danza. La relazione è piena, perché il contatto è pieno e la comunicazione avviene su livelli sottili.
In altri casi invece, le cose si complicano perché entrano in conflitto modelli esistenziali. Il terapeuta sente un’effettiva antipatia, ed è rivolta specificamente alla persona, non a quello che lei rappresenta. Analoghi vissuti può avere il paziente. In questo caso il terapeuta è organizzato con una forma caratteriale che tende a rifiutare quella dell’altro. Facciamo l’esempio di una paziente che chiede molto, pretende attenzione continua, si lamenta che tutto le va male e sembra che niente la potrà mai soddisfare. Il terapeuta che al contrario, ha imparato a fare da sè, per cui evita di appoggiarsi e tende a prendere molte responsabilità, magari sforzandosi per conseguire da solo i risultati, sente un rifiuto epidermico per lei che pretende tanto sostegno. Collide con il suo modello esistenziale. Se esprime chiaramente il proprio rifiuto da spazio a una verità che può aiutare a definire i limiti del rapporto, troppo sbilanciato sull’impegno richiesto al terapeuta. Allo stesso tempo è un invito alla paziente a lamentarsi di meno e a prendere maggiori responsabilità. Ci sono altre forme di transfert che riguardano l’identificazione ma non le tratterò in questa sede. Mi soffermerò invece su un modo più complesso e terapeutica mente significativa di guardare al fenomeno, in quei casi in cui si tende a riprodurre nella relazione terapeutica effetti di costruzioni intrapsichiche provenienti da momenti relazionali con figure significative che ancora una volta non sono direttamente implicate. Ad esse il paziente si è ispirato per produrre proprie elaborazioni interne dalle quali provengono convinzioni arcaiche, idee fisse sul proprio essere e sul proprio valore, che hanno contenuto irrazionale e generalizzante. Sono nuclei cognitivi che hanno prodotto decisioni esistenziali che oggi, come reificate, costituiscono appoggi per svalutazione della realtà. Mi riferisco all’introiezione di un “genitore autogenerato”, che funziona sia nel dialogo interno, sia nella relazione quando viene proiettato sul terapeuta. Questa forma transferale è effetto di una distorsione della figura del genitore reale e si manifesta attraverso la proiezione di immagini minacciose o aggressive, quando è sul terapeuta, è sotto forma di incubi nei sogni. Porto un esempio tratto da esperienze abbastanza comuni, per intenderne il processo di costruzione. Un paziente si sente giudicato dal proprio terapeuta e ha difficoltà a esprimersi, trascorre molto tempo in silenzio. D’altro lato gli sorride compiacente anche quando non è d’accordo. Questo nella relazione terapeutica. La matrice del comportamento attuale viene individuata in una scena della sua infanzia, nella quale arrossisce di fronte al padre che lo rimprovera ingiustamente. Il bambino non si difende e vive sentimenti e convinzioni di inadeguatezza. La scena è la ripetizione di tante altre similari che connotano la sua relazione con il padre. La complessità del rapporto con il genitore, attraverso logiche basate su pensiero arcaico, assume un significato che si coagula in un’unica credenza: “sono inadeguato”. La convinzione, unita a conseguenti decisioni operative sul come comportarsi, funzionerà come un genitore, trasformandosi in una voce interna, inconsapevole, che nei momenti difficili gli ripeterà: “sei inadeguato”. Lo farà in maniera meccanica e la “voce” gli governerà la vita entrando anche nel setting. L’elemento associato è un ordine limitante: “devi vergognarti per come sei” al quale risponde ritirandosi, anche davanti al terapeuta che in questo caso rappresenta simbolicamente il genitore interno autogenerato. La Gestalt è completa, il processo transferale ha un suo contenuto. In questo caso il transfert si presenta come la cristallizzazione di un pezzo di esperienza che si riattiva nella relazione.
Il rilievo che dà la Gestalt ai vissuti del terapeuta porta a centrare le fasi di supervisione non solo sulle competenze tecniche ma soprattutto sull’elaborazione del controtransfert, inteso in senso allargato. La relazione è influenzata dal modo di essere del terapeuta ed è importante conoscere quei messaggi ulteriori, non espressi in maniera volontaria, che tuttavia raggiungono il paziente e danno vita a comunicazioni disturbate. In questo caso la relazione, funzionando su due livelli, uno espresso e l’altro inconsapevole, produce nel paziente fenomeni dai risultati imprevisti: stati d’animo negativi e convinzioni che confermano il suo sentirsi vittima o persecutore, due polarità che nel dialogo interno sono “il campo di battaglia” nel quale si muovono i conflitti e nella relazione diventano metafore per dichiarare differenze, incomprensioni e bisogni insoddisfatti.
La nuova Gestalt: la psicologia degli enneatipi
Naranjo, il più significativo continuatore del lavoro di Perls, si è impegnato in un’importante opera di integrazione del modello gestaltico, riempendolo di ulteriori significati e allargando la sua area di intervento in molteplici direzioni. Un grande contributo alla psicoterapia delta Gestalt è venuto dalla psicologia degli enneatipi, la caratterologia fondata sull’enneagramma. Naranjo, instancabile ricercatore, ha rielaborato questo insegnamento, ricevuto per trasmissione diretta da Oscar Ichazo, in forma di una moderna psicologia, tenendo vive le caratteristiche di tradizione spirituale che furono proprie di questa via. L’attenzione agli aspetti caratteriali fu implicita della Gestalt di Perls ed è facile intenderlo se pensiamo al significativo contatto che ebbe con W. Reich, del quale fu discepolo. Come ho già rilevato, parlando di processo e contenuto, Perls fu interessato ai fenomeni psichici nella loro complessità, quindi anche alle forme rigide e ripetitive secondo le quali le persone si organizzano in età precoce. Sono tali forme che danno vita al carattere. Grazie all’enneagramma e allo studio delle varie tipologie che assume l’Ego, oggi possediamo, aggiornata, una ricca e articolata mappa di tipi di personalità che permette al terapeuta di intervenire in maniera più profonda e diretta nel lavoro con il paziente e utilizzare queste conoscenze per stabilire le modalità di scambio che meglio funzionano con quello specifico tipo di carattere. Inoltre, nella tradizione delle enneagramma, a differenza che nella psicoterapia, l’attenzione all’Ego, l’aspetto condizionato della personalità, è il punto dal quale si parte per raggiungere poi l’esperienza contemplativa e conoscere gli stati superiori della mente, l’ “essenza”. Un equivalente di quello che nella tradizione buddhista viene definito “stato puro della mente”. Il primo a parlare di enneagramma in Occidente fu Gurdjieff che lo presentò attraverso una figura con nove punti, un simbolo, proveniente da scuole di esoterismo cristiano, attraverso il quale, diceva, è possibile spiegare importanti leggi universali. Non mi dilungherò sulla storia dell’enneagramma e mi soffermerò brevemente su alcuni aspetti della sua organizzazione.
È una figura con nove punti sulla quale vengono rappresentate altrettante strutture di personalità, identificabili ciascuna con specifiche caratteristiche e qualificazioni.
All’interno del sistema si distinguono i livelli inferiori e superiori della coscienza. In quello inferiore, relativo all’Ego e che maggiormente si avvicina alla psicoterapia, il tipo psicologico viene diagnosticato attraverso due mappe interconnesse, una si riferisce al centro “emozionale” e l’altra al centro “cognitivo” della personalità, denominate rispettivamente enneagramma delle “passioni” ed enneagramma delle “fissazioni”. Le passioni sono contrassegnate da numeri e nomi. Questi ultimi evocano una particolare qualità emozionale, una “coloritura” appassionata che impronta il tipo di carattere. Come è noto, l’emozione muove i processi fondamentali della nostra esistenza, ma quando è vissuta in maniera esagerata, e quindi diventa “passione”, condiziona l’intero comportamento. La persona vive una forma di attaccamento alle proprie esperienze generata da un’illusione del bambino, l’idea che se “lo fa di più” otterrà il risultato.
Le nove passioni sono: ira, orgoglio, vanità, invidia, avarizia, paura, gola, lussuria, pigrizia. Questi nomi, pur essendo di uso comune, hanno un significato più esteso di quello che abitualmente gli attribuiamo. Ogni passione è caratterizzata da tratti specifici e ripetitivi che si manifestano nel comportamento e, ciascuna di esse, si presenta sotto forma di tre sub tipi:
conservativo, sociale e sessuale.
Nell’enneagramma delle passioni viene rappresentato 1’aspetto funzionale, descrittivo, del carattere. Prendiamo come esempio il tipo numero tre definito come “vanità”. Tra i principali tratti di questa tipologia emerge una “passione” per il mostrarsi, una forma esagerata di quello che originariamente è lo stato emozionale del tutto spontaneo che spinge il bambino “naturale” a mettersi al centro, mostrando le sue doti migliori. In questo modo si garantisce l’attenzione e l’affetto. Nella forma appassionata diventa vanitoso, accentua le sue intenzioni e fa di tutto per essere visto, vuole “brillare”, sia attraverso l’aspetto fisico, usato come mezzo di seduzione, che attraverso l’imporsi nei rapporti sociali che utilizza per guadagnare prestigio. Si fa apprezzare per la sua efficienza e le buone capacità organizzative. Tiene molto alla propria immagine, della quale, più che altre tipologie, finisce con l’identificarsi. Alcuni si caratterizzano per il loro bisogno di approvazione e a questo scopo cambiano attitudine a seconda di come di volta in volta pensano che gli altri li vogliano. Tendono a essere compiacenti. Se guardiamo con un’ottica esistenziale, ogni carattere tende a riempire un vuoto d’essere, una carenza basica, e il vanitoso lo fa soprattutto proponendosi attraverso l’immagine, mentre tende a nascondere a se stesso e agli altri gli aspetti più veri di sé. Il suo voler “apparire” è sostenuto da un’idea di fondo: se l’altro non mi vede non esisto. Uno splendido esempio di quanto drammatica possa essere l’esperienza di non esser visto viene rappresentato nel film La famiglia. Uno zio gioca con il nipotino di cinque o sei anni. Finge di non vederlo e lo cerca dietro i mobili, sotto le sedie ed esagerando, anche tra i tasti del pianoforte, mentre il bambino, non rendendosi conto che si tratta di un gioco, gli va dietro e continua a chiamarlo. “Sto qua zio, sono qui”. Ma lo zio finge di non sentirlo e ancora più concitato continua a cercarlo: “Ma dov’è? …dove si è cacciato?”. Infine il bambino incomincia a urlare e scoppia in un pianto isterico. Non può tollerare di non essere visto. Ne va della sua esistenza. L’ultima inquadratura mostra il suo volto pervaso da un’espressione intensa di dolore e odio insieme.
Accanto all’enneagramma delle “passioni” troviamo quello delle “fissazioni”. Con il termine “fissazione” ci riferiamo agli aspetti cognitivi della personalità. In pratica il carattere si organizza intorno a un nucleo fisso di idee e pensieri che sono interpretazioni irrazionali, distorte e generalizzate della realtà, o perlomeno non più adeguate al momento di vita attuale. Il processo di formazione delle fissazioni è molto simile a quello delle “convinzioni” su di sé, gli altri e la vita, che vengono considerate come il nucleo fondante del copione in analisi transazionale. È proprio sulle fissazioni che si organizza la struttura del carattere.
Le nove “fissazioni” sono: perfezionismo, sovrabbondanza, autoinganno, sofferenza, isolamento, dubbio o accusa-autoaccusa, ciarlataneria o astuzia, vendicatività, iperadattamento. Anche nella mappa delle fissazioni ogni tipo viene indicato con nomi che evocano in maniera sintetica un’intera organizzazione, riferita questa volta ai contenuti della personalità. Porto un esempio con il numero quattro, caratterizzato dalla passione Invidia e dalla fissazione sofferenza. Questo carattere è “fissato” su ciò che manca e tende a non vedere il buono che la vita gli offre. Più che gli altri tipi vive una carenza incolmabile, un vuoto che non riesce a riempire nonostante gli sforzi che fa. A seconda del sub tipo attraverso il quale si manifesta, può essere più tendente alla depressione lamentosa, alla competitività reattiva di chi vuole prendersi con la forza ciò che gli manca o all’autosufficienza compensatoria spesso connessa a forme retroflessive che facilitano il prodursi malattie psicosomatiche. II nucleo cognitivo, del tutto irrazionale, sul quale il numero quattro si è fissato, contiene un’idea di base: se soffrirò abbastanza raggiungerò la felicità. È un’idea pazza, nata da reazioni biologiche che in sé sono naturali, e però diventano distruttive quando la sofferenza viene vissuta in modo generalizzato e pertanto anche quando non ce ne sarebbe ragione. II bambino piccolo richiama l’attenzione della madre attraverso il pianto. Quando la mamma finalmente arriva porta il buon latte che lo appaga. Con il tempo l’esperienza si autorinforza e si stabilizza la convinzione che bisogna soffrire per poter essere felice. Questo è uno dei nuclei cognitivi sul quale si formerà il carattere. All’idea di sofferenza si associano sensazioni di perenne insoddisfazione e un’illusione connessa, legata alla nostalgia di un paradiso perduto: “un giorno verrà il principe azzurro o altra similare. “Verrà il momento del mio riscatto e capirete che ho un valore”. Naturalmente è difficile che quella felicità arrivi, cosi com’è stata auspicata, e la persona continua a vivere in uno stato di malessere e neanche vede ciò che la vita gli offre, perché ogni cosa che riceve non è sufficiente a soddisfare le sue aspettative. Aspira all’impossibile. Cito a titolo di esempio alcune caratteristiche di una paziente appartenente al sub tipo conservativo, che appaiono diverse e in superficie polari a quelle delle altre sub strutture, che più facilmente manifestano le loro pretese e si lamentano. Nel tipo conservativo troviamo decisioni arcaiche attraverso le quali, per esempio, tende a reagire alla mancanza d’amore negando che ne ha bisogno. Così non sente la sofferenza e prende decisioni del tipo: “Sarò presto capace di fare da sola, non chiederò aiuto a nessuno e basterò a me stessa”. Stoicamente rinuncia. Nel caso di una paziente, accanto a questa decisione ne emerge un’altra strettamente connessa, quella di prendersi cura della madre che l’utilizza, sebbene cosi piccola, come confidente delle sue pene. La bambina sta al gioco e coltiva un’altra illusione: se renderò mamma felice riceverò più amore da lei. In pratica stabilisce una simbiosi all’inverso. Al fondo di questa personalità c’è la convinzione di non essere stata voluta o di aver creato problemi con la sua presenza. In altri casi si sente il figlio “diverso” e come tale non potrà mai avere la pienezza d’amore di cui necessita e quindi in qualche modo dovrà pagare. L’insieme di questi messaggi si trasforma in un ordine interno che gli condizionerà la vita, un divieto a esistere contro il quale lotta disperatamente, ma nella direzione errata. In tutti i sub tipi del tipo Invidia c’è molta insoddisfazione e per questo, anche quando negati, sono proprio i bisogni frustrati a prendere la guida della personalità. Attivano comportamenti che pur se diversi da un sub tipo all’altro, sono sempre mirati a un unico obiettivo: riempire il vuoto d’amore. Dall’integrazione di fissazione passione, e quindi degli aspetti funzionali e strutturali, delle manifestazioni esterne e dei contenuti, si costituisce complessivamente il carattere, formato da una struttura cognitivo-decisionale che si manifesta all’esterno attraverso tratti e comportamenti ripetitivi. Tornando al nostro tema, è facile immaginare quante possibili e differenziate relazioni si possono instaurare tra terapeuti e pazienti in base alle tipologie di appartenenza.
Continuo di consapevolezza e la relazione Io-Tu. I tre amori
Perls Aveva già parlato in Ego hunger and aggression di indifferenza creativa e vuoto fertile, principi appresi da Friedlander, che considera tra i suoi principali maestri. In sintesi introdusse all’idea che a partire da uno spazio mentale libero di presenze disturbanti, in uno stato di pace, nasce il nuovo. Il vuoto produce esperienza. Naranjo riprese il tema e arricchì l’eredità di Perls integrando la visione gestaltica con i contributi delle tradizioni orientali che nel periodo di Esalen, negli anni 60, già influenzavano la cultura dello sviluppo umano. Le tecniche e la filosofia della meditazione si integravano bene con i principi dell’autoregolazione organismica, della focalizzazione e dell’indifferenza creativa. Naranjo elaborò la “Gestalt meditazione” che applicò come pratica terapeutica individuale, e, in maniera totalmente innovativa, a livello relazionale. Nel suo modello spiritualità e psicologia si incontrano, in continuità tra loro, per dar vita a “un’ unica via”. La prassi meditativa si arricchisce di nuove potenzialità attraverso l’incontro a due, spazio nel quale i fenomeni si sviluppano in maniera più complessa rispetto a ciò che sperimenta l’individuo da solo. La presenza dell’altro produce ulteriori disturbi e distrazioni dal contatto con la propria interiorità e allo stesso tempo permette una relazione più profonda. Aveva inventato il “continuum di consapevolezza”, come tecnica di esplorazione della coscienza, che è un modo più sofisticato di esprimere libere associazioni, mantenendo insieme concentrazione, attenzione al qui e ora e apertura al possibile. Naranjo va oltre, cerca il contatto diretto con l’esperienza di vuoto, per portarla nella relazione e di conseguenza nel quotidiano. Entrando nello stato meditativo si dà spazio all’esperienza che si manifesta, momento dopo momento. Il fluire della mente in azione interagisce con la presenza di momenti di vuoto. Chi si osserva mentre i fenomeni si manifestano, propone a se stesso una domanda ingenua: “Cos’è questo?”. Un’osservazione senza giudizio e senza attesa di risposte che ha come effetto un’esperienza piena, sia essa cognitiva, emozionale o sensoriale. Le modalità di lavoro con il “continuum”, facilitano 1’emergere di consapevolezze in maniera diretta, senza ulteriori elaborazioni, ideale implicito della psicoterapia delta Gestalt. Il fattore curativo non è soltanto della soddisfazione del bisogno, né nel reprimerlo. In contatto con la spontaneità organismica si incontra la saggezza implicita. La catena incessante dei bisogni, molti dei quali fittizi, difende dall’angoscia, dai dubbi, dalle paure e spinge a “dimenticarsi di sé’. In Gestalt cerchiamo la pienezza dell’esistere attraverso un responsabile risveglio della coscienza. Quando il turbinio della mente si acquieta, nello stato di calma emergono altre possibilità. Ai momenti di libero fluire ne succedono altri in cui il movimento consapevole si interrompe e inizia il lavoro più strettamente terapeutico. Se utilizziamo la conoscenza della psicologia degli enneatipi, le linee guida per il cambiamento sono già contenute nelle potenzialità del carattere. Come ulteriore appoggio, ai livelli superiori dell’enneagramma, si praticano le “virtù”, attitudini mentali specifiche per ciascuna tipologia, capaci di attivare condizioni e stati di coscienza che favoriscono lo sviluppo di nuove forme di essere e comportarsi. Tornando al “continuum” è importante lasciar spazio ai momenti di vuoto che intercorrono tra un’esperienza e l’altra, perché è da lì che emergono le nuove consapevolezze, in maniera spontanea, organismica, guidata da una decisionalità più sottile. La spontaneità produce i suoi effetti quando “l’essere” subentra al dover essere. Ci sarà poi il tempo per le valutazioni e per la razionalità che in questo caso non viene condizionata da influenze copionali e sociali. Nello stato di vuoto è attiva l’autoregolazione organismica, un principio dionisiaco, che non va inteso semplicisticamente come ricerca di soddisfazione e di piacere, ma piuttosto come un lasciarsi andare all’autenticità. Focalizzarsi sulla saggezza organismica, che porta a scegliere secondo “preferenzialità” naturali, è “l’altra via”, che nella Gestalt di Naranjo viene proposta come alternativa privilegiata rispetto a quella dell’elaborazione del conflitto che, al contrario. trova le sue soluzioni attraverso l’impegno della scelta. Durante il processo di crescita, così come avviene nel “continuum”, a momenti creativi ne seguono altri in cui prevalgono la rigidità e la stasi. Sono situazioni nelle quali tornano in primo piano le strutture caratteriali e le dinamiche interattive abituali.
Quando consapevolmente osserviamo le nostre esperienze, ci rendiamo conto che si sviluppano seguendo una linea ben determinata. Iniziano dal vuoto, procedono fino a un culmine e poi si esauriscono tornando al vuoto, uno stato della mente nel quale aumenta la capacità di presenza e la potenzialità senza forma. Quando il mondo percettivo-emozionale va sullo sfondo non vuol dire che resta il nulla. A livello subatomico si osservano momenti in cui ci sono particelle che scompaiono dall’orbita per poi ricomparire in un punto diverso. In quel vuoto temporale, anche se in altra forma, continua ad esistere un quid, forse non direttamente osservabile. Queste esperienze contraddicono le teorie gestaltiche che concepiscono un Sé che esiste solo sul confine di contatto e quindi, implicitamente, solo nel mondo delle percezioni, teorizzando un “affievolimento” o addirittura un’ “estinzione” del Sé quando manca l’oggetto. Tali teorie potrebbero aver senso se considerassimo il Sé come un ente, concreto, con un’esistenza percepibile attraverso i sensi. A partire da tali premesse ritengo che la teoria del Sé così come proposta da Goodman nel libro Teoria e pratica della terapia della gestalt, del quale è co-autore con lo stesso Perls ed Hefferline, andrebbe rielaborata su altre basi, più congruenti con una concezione dell’uomo che guarda la sua complessità, psico-fisico-spirituale. La condizione di vuoto non è un niente, anzi, è uno stato di pienezza.
In sintesi, le due esperienze, quella del vuoto è quella del contatto, sono entrambe necessarie: l’indifferenza creativa e l’impegno della scelta viaggiano insieme.
Quando il “continuum” viene sperimentato tra due persone, una di fronte all’altra, la relazione può svilupparsi su diversi livelli: più centrata sull’Io o più sul Tu, fino al punto ideale dell’essere insieme, un Io con un Tu. A questo livello, nel quale l’Io e il Tu egoici tendono ad affievolirsi, si sviluppa uno spazio in cui l’Io e il Tu sono copresenti, il contatto tra loro è a livello sottile, “da essenza a essenza”, e ha una qualità amorosa, dice Naranjo. Anche quando è “Io” che parla “Tu” è solo apparentemente in silenzio, la sua presenza dà messaggi impliciti. L’Io e il Tu sono separati e allo stesso tempo uniti, in uno stato nel quale è presente l’individuo e contemporaneamente l’altro, senza funzioni. Nella pienezza del contatto resta ben distinto l’individuo. Nella pratica dell’Io-Tu, fatta con attitudine meditativa, la relazione diventa più profonda, c’è trasparenza e amore indifferenziato, non condizionato dall’oggetto, né da un fare. Questo livello di comunicazione è diverso da quelli esplorati nelle pagine precedenti, costituisce un culmine di esperienza e quando si presenta in terapia, lo stare insieme di terapeuta e paziente è caricato di interesse genuino, qualcosa più dell’empatia. In generale, i problemi che i pazienti riportano più spesso, raccontando le loro storie, sono connessi a carenza d’amore ed e per questo che soffrono. Resta un vuoto difficile da colmare, per cui la loro attenzione rimane fissata soprattutto sull’Io. Un rimedio paradossale è quello di coltivare l’amore compassionevole dirigendo l’attenzione verso il Tu. In questo caso l’amore diventa altruistico, disinteressato, da essere a essere, e, con l’attenzione diretta al Tu, anche l’Io si riempie. Naranjo parla di tre vie per l’amore. Si è ispirato in questa concezione a un altro cileno, Totila Albert, uno scultore che scrisse molto, ma non pubblicò in vita. Affidò a Naranjo il compito di farlo, un certo tempo dopo la sua morte e il lavoro è ancora in corso.
Totila Albert propose un’idea di trinità che spostava l’attenzione dal divino all’umano. Accanto al padre prende posto la madre e dal loro incontro procede il figlio. La donna, il principio materno, affianca quello paterno per dar vita al terzo fattore che rappresenta la continuità, sintesi dell’esperienza di incontro dei due principi, quello maschile e quello femminile, storicamente rappresentati dal patriarcato e dal matriarcato. Nel figlio, si concentra una sintesi dei due, ed è lui che costituisce il tramite tra passato e futuro. Raccoglie 1’eredità di chi è vissuto prima e la trasforma per lasciarla a chi verrà dopo. Rappresenta la continuità dell’esperienza umana sia riferita al tempo che ai processi interiori. Nella trinità è naturale l’equilibrio e dall’armonia delle tre parti si sviluppa la saggezza. Riportando questo discorso alla terapia, la crescita avviene per integrazione delle tre componenti amorose che sono patrimonio di ogni individuo, non c’è spazio per la guerra degli opposti. Matriarcato e patriarcato possono e devono coesistere. È importante realizzare nel nostro tempo i valori delta madre, non per un ritorno a un presunto ‘paradiso perduto’, ma per farli convivere con i valori del patriarcato e per diminuire la portata di quest’ultimo, non per annullarlo. A partire da queste intuizioni Naranjo propone una nuova concezione e una pratica di lavoro. L’amore si articola in diverse forme non è uno, gli amori sono tre e attraverso l’amore ci si realizza. L’amore paterno è ammirativo, devoto, vicino alla concezione patriarcale della vita. È l’amore che si poggia sull’ideale, il modello da perseguire. II bambino che si affaccia al mondo segue il padre, e lui la guida. L’amore materno è quello che accoglie, offre il terreno fertile per crescere, ha a che fare con il nutrimento e la concretezza dell’esistere, è l’amore protettivo legato alla concezione matriarcale. Quello del bambino è l’amore istintivo connesso alla naturalezza e guidato dal desiderio. Sfocia nell’amore erotico ed è il mondo nel quale trova spazio il “bambino divino” che ha già in sé la saggezza, per via naturale, a differenza dell’ “eroe” che deve cercarla con sforzo, correndo rischi e affrontando mostri e draghi, per raggiungere la meta. Sono tre le vie dell’amore e per ognuna di esse c’è pari diritto di esistenza. Quando le tre forme sono insieme, l’uomo si completa.