Gestalt e psicosomatica: un caso di sclerosi a placche
Pubblicato in: Significato e senso della malattia. Atti del XVII congresso della Società Italiana di medicina psicosomatica. A cura di Mario Reda e Domenico Benevento. Siena: novembre 1999.
“Gestalt: la malattia psicosomatica come espressione della personalità nella sua interezza. Il sintomo non può essere isolato dalla persona che ne soffre, in quanto la malattia, pur portando sofferenza, paradossalmente è il risultato di scelte creative.”
Sintomo e malattia psicosomatica
Nella Terapia della Gestalt qualsiasi fenomeno trattiamo va inserito in un contesto e quindi in una visione di insieme. Per questo motivo possiamo considerare la malattia psicosomatica come espressione della personalità nella sua interezza. Il sintomo non può essere isolato dalla persona che ne soffre. Anzi, poiché nella tradizione gestaltica è la crescita personale ad assumere valore fondamentale ai fini del cambiamento, la guarigione comprende la recessione del sintomo e va oltre, verso la riorganizzazione della personalità e in direzione dello sviluppo dei potenziali repressi o, per ignoranza, mai attivati. La Gestalt, quindi, non è una terapia sintomatica e tanto meno può essere considerata una terapia breve.
F. Perls propose una concezione dell’uomo consapevole da contrapporre all’uomo nevrotico e fu più interessato a come attivare la salute mentale che allo studio della patologia, ispirandosi in questo anche a tradizioni filosofiche e spirituali che da un lato influenzarono la sua visione del mondo e dall’altro gli offrirono spunti per elaborare prassi terapeutiche. In quest’area sviluppò grande concretezza operativa ed inventò tecniche del tutto originali che furono e sono di estrema efficacia nelle mani del clinico competente. Quella della Gestalt è una tradizione complessa, spesso difficile da cogliere nel suo effettivo spessore. Non è soltanto una pratica terapeutica, e neanche una mera visione dell’uomo. Non cerca “verità”. Si occupa dell’esistente e del come il fenomeno si manifesta, ma anche della sua struttura. Nella concezione di C. Naranjo, l’erede più significativo di F. Perls, la Gestalt è un approccio che integra aspetti analitici ed esperienziali, si occupa del cognitivo e dell’emozionale, del processo e del contenuto, articolandosi lungo una linea che va dalla cura del sintomo fino alla crescita spirituale.
Il “continuo della consapevolezza”
Ricordo, a titolo di esempio il “continuo di consapevolezza”, nelle sue varie forme di applicazione, attraverso il quale è possibile lavorare su due livelli di esperienza. Da un lato viene attivata la consapevolezza stessa, potenziale naturale di autoguarigione, e dall’altro si identificano i meccanismi di interruzione che ne impediscono il libero fluire, e dietro questi, secondo quanto io stesso propongo, ci addentriamo nella complessità del Copione per riorganizzarlo. Proprio nel libero fluire della consapevolezza, che diventa punto di arrivo, è possibile sperimentare lo stato di salute mentale, molto vicino ad uno stato meditativo. D’altro lato, e più concretamente, l’essere presenti momento per momento nel qui ed ora dell’esperienza, attiva parti adulte della personalità e permette di trovare risposte congruenti ai nostri effettivi bisogni. Necessità non più legate ad esperienze del passato che ancora ci contaminano e neanche aspirazioni illusorie che ci spingono verso soluzioni idealizzate e perciò irrealizzabili. Dal “continuo” derivano molte tecniche che in Gestalt chiamiamo “di contatto”.
L’approccio della Gestalt al sintomo
In area psicosomatica l’esempio divenuto classico è quello di lavoro sul sintomo. Perls illustra questa modalità d’intervento in uno dei suoi libri (1977). Il paziente, che soffre di emicrania, viene invitato a scoprire e a dare attenzione, fin nei dettagli, alle tensioni, ai muscoli coinvolti, al “come lo fa”, il modo in cui produce il suo dolore. Siamo responsabili dei nostri sintomi. Viene invitato a intensificare le contrazioni muscolari e spinto a sentire ancora di più il dolore che prova. La tendenza difensiva è di evitare e reprimere. In Gestalt, al contrario diamo spazio al fenomeno, lo rendiamo consapevole e lo osserviamo nella sua interezza, riempiendo i vuoti di esperienza e di significato. Il “sentilo di più” diventa una tecnica guida e, così procedendo, è possibile che arrivi il momento in cui il paziente senta voglia di piangere e, a partire di lì si sviluppi ulteriore consapevolezza su cosa provoca l’emicrania.
Il contatto con l’emozione è un punto di arrivo importante, l’emozione dirige il comportamento e riportarla in superficie permette la scoperta di bisogni e di nuove alternative. Più nell’immediato, il lavoro, così come è stato proposto, potrebbe liberare dal dolore. Se il paziente si lascia andare al pianto, forse, i muscoli si rilassano e l’emicrania può scomparire. Ma, come è ovvio, la terapia non finisce qui. L’emicrania ha ragioni di essere più profonde ed in questo sintomo è coinvolto l’intero mondo del paziente, condizionato da quanto ancora manca nella sua esistenza. Entrando più nel merito della malattia, Perls la considera effetto di una introiezione di regole e comportamenti che provengono dall’ambiente e sono in contrasto con la naturale saggezza organismica.
Il sintomo come derivato del conflitto
In pratica il sintomo è il prodotto di un impasse tra bisogni naturali e divieti ambientali. Sostanzialmente, a parte tutte le considerazioni sulla sua formazione in termini di libido e di fissazioni a specifiche zone erogene, la Gestalt condivide la concezione freudiana, considera il sintomo come il derivato di un conflitto. Contemporaneamente, però, la malattia psicosomatica è anche un’espressione di vitalità. Per il fatto di essere un prodotto di un conflitto, costituisce una difesa contro una manifestazione di desideri e di bisogni vissuti come troppo pericolosi, perché in contrasto con divieti familiari e culturali. In pratica, è il frutto di un compromesso tra un “voglio” e un “devi”. Il risultato è un nuovo fenomeno, la malattia, che, pur portando sofferenza, paradossalmente è il risultato di scelte creative.
Generalizzando, si può dire che ogni adattamento, e il sintomo ha natura adattiva, anche il più limitante, è il risultato di un atto creativo. In una visione ridecisionale, questa concezione implica che, se da bambini abbiamo inventato comportamenti limitanti per convenienze affettive e per limiti personali nella comprensione delle nostre vicende, siamo oggi altrettanto in grado di operare scelte, questa volta più sane, in direzione della salute. Da quanto detto, discende che il sintomo anche il più grave, è solo apparentemente autodistrutivo e contiene in sé la via per il cambiamento. Naturalmente, non dimentico che in diverse occasioni, i processi patologici sono così avanzati che diventa difficile la remissione. Proprio per il fatto che la gestalt sollecita comportamenti creativi e la ricerca di nuove alternative, la tecnica operativa, quando la situazione e il tipo di paziente lo permettono, è molto centrata sull’esperienza.
Il paziente non si ferma al racconto delle sue vicende. Si identifica nel personaggio, in un oggetto, nell’elemento di un sogno e questo modo di operare facilita un contatto immediato e carico di energia con stati emotivi, cognitivi e sensoriali che, per lo stesso fatto di diventare coscienti, aprono lo spazio ad altre possibilità. Tornando alla malattia, ritengo, anche se sembra un paradosso, che fondamentalmente la sua natura sia di tipo autoconservativo. Costituisce una protezione davanti al rischio catastrofico che vive il bambino o lo stato dell’Io Bambino fissato nell’adulto, di fronte alla perdita dell’oggetto d’amore, per cui rinuncia a vivere a pieno la sua vitalità e il suo potenziale creativo.
In definitiva, il compromesso, il cui effetto è il sintomo, gli permette di sopravvivere con quello che lui ritiene il modo più vantaggioso con il minor rischio possibile. Per lo meno, questa è l’intenzione. La sofferenza angosciante per la perdita d’amore viene evitata dirigendo l’energia vitale, che non può essere pienamente espressa, in altre direzioni. In definitiva il sintomo porta vantaggi.
Non solo per i motivi che hanno favorito la sua organizzazione ma anche, in maniera strettamente connessa, per i suoi aspetti manipolativi, considerando quanta attenzione può attirare su di sé una persona ammalata. Proprio per la complessità dei contenuti di una malattia psicosomatica non è sufficiente trattarla soltanto negli aspetti processuali, ma è necessario considerare il fenomeno nella sua interezza e quindi lavorare anche con la struttura, con i contenuti della personalità. Pur focalizzando la metodologia di lavoro soprattutto sulle manifestazioni funzionali, il cui vertice operativo fu il continuo di consapevolezza, è proprio Perls ad essere convinto che sia fondamentale in terapia trattare la struttura. Anche se non dette specifiche indicazioni sul modo di operare in questa direzione, lui lo faceva.
Entrare nel mondo interno del paziente
Il continuo di consapevolezza basterebbe da solo, commentava, e se ciò accadesse sarebbe un grande risultato. Ma siamo così complicati che spesso l’esercizio del “continuo” non è sufficiente. Allora bisogna entrare nel mondo interno del paziente e conoscere le regole che governano il suo modo di essere. È necessario un principio organizzante per dar vita ad un fenomeno: “Esaminiamo la struttura, quando comprendiamo la struttura, allora possiamo cambiarla. E’ la struttura che cerchiamo nella terapia della Gestalt, è la struttura che ci interessa di più, è la struttura del Copione della nostra vita. Cioè la struttura di come evitiamo l’immediatezza dell’esperienza” (1983).
Accanto al principio di preferenzialità, ispiratore della terapia gestaltica, possiamo affiancare un principio “organizzante”. Da un lato, operiamo scelte seguendo le tendenze naturali che portano direttamente a ciò che serve secondo “preferenzialità”, e, d’altro lato, costruiamo il nostro specifico adattamento al mondo influenzati da limitazioni effettive o immaginate provenienti dall’ambiente. Si attivano così comportamenti organizzati secondo schemi che tendono a stabilizzarsi in strutture rigide e ripetitive: carattere, personalità, Copioni di vita. Da un lato possiamo operare direttamente sulla salute mentale, patrimonio innato, e dall’altro ci serve entrare nelle strutture per scoprirne la logica e poterle così riadattare, aggiornandole.
Trovo a questo scopo estremamente utile la teoria del Copione proposta da Berne, alla quale lo stesso Perls fa riferimento, così come è stata elaborata nella sua visione gestaltica. Entrando più specificamente nel tema, la malattia psicosomatica, poiché non è separata dallo sfondo complesso nel quale affonda le sue radici, è la rappresentazione della storia di una persona che ne soffre e quella storia la racconta. Il terapeuta con i suoi interventi traccia le linee guida per la comprensione dell’intera mappa e si propone l’obiettivo di riorganizzarla. Nel mio lavoro stabilisco connessioni logiche tra il sintomo e il copione di cui fa parte. Guardo contemporaneamente alla struttura, cioè ai contenuti, e alla funzione, cioè a come il fenomeno si manifesta. Il processo e il contenuto sono strettamente interconnessi, così come d’altro lato è la stessa logica che, su versanti diversi, guida la patologia e la salute.
Organizziamo mappe di vita che hanno una duplice valenza: da un lato costituiscono sistemi difensivi, quindi sono rivolti alla protezione e alla conservazione e, d’altro lato, ci consentono di soddisfare in una qualche misura, seppur ridotta, il nostro bisogno. In conclusione, il sintomo psicosomatico è una manifestazione del Copione di vita e di questo porta iscritti gli elementi strutturali, complesso incontro di bisogni innati, stimoli ambientali e di elaborazioni e interpretazioni personali delle esperienze vissute. Contiene in forma simbolica nuclei emozionali e cognitivi che improntano le decisioni esistenziali di una persona. Comprendere come il passato si riproduca oggi in una realtà che non ha più nulla delle vecchie storie, evidenzia gli aspetti incoerenti e irrazionali del nostro vivere attuale e mette in moto il processo di cambiamento.
Un caso clinico
Porto ora alcuni esempi tratti da un caso clinico per evidenziare le connessioni tra le regole interne, che sembrano essere alla base della malattia, e i sintomi attuali. Si tratta di una paziente ammalata di sclerosi a placche, un processo che colpisce la guaina mielinica delle strutture nervose e provoca una progressiva invalidità motoria determinando fenomeni di paralisi in parti differenziate del corpo. In pratica il sistema immunitario anziché difendere l’organismo da attacchi esterni si rivolge contro la persona stessa che dovrebbe difendere.
La paziente, intorno ai 45 anni, ha crisi ricorrenti, ancora non molto gravi, che tuttavia già la limitano nei movimenti. Vive in uno stato di torpore fisico e di passività generalizzata. È subito evidente che il suo principale meccanismo di evitamento, cioè la barriera difensiva che mette al contatto con le sue esperienze interne e con il mondo esterno, è quello che in Gestalt si chiama la “retroflessione”. Freud parlava di rivolgimento contro di sé. Lo suggerisce il tipo di malattia nella quale, come abbiamo visto, il sistema immunitario si rivolge contro l’organismo e lo suggerisce lei stessa con le esperienze che riporta in terapia. “Comincio a sentirmi incazzata e lo faccio contro di me”, dice, proprio come fa il suo sistema immunitario.
Si esprime con toni bassi e il linguaggio è molto controllato. Legnosa nei movimenti ha uno sguardo freddo e un po’ fisso. Non lascia trapelare emozioni. Precisa e puntigliosa segue valori di giustizia e solidarietà più per abitudine che per convinzione. È sposata con tre figli e lavora come avvocato in un’ente pubblico. Durante una seduta di terapia la invito ad esprimere aggressività scalciando contro un materassino per muovere energia e attivare vitalità. Perde subito forza nelle gambe, anzi di più, le si addormentano e si bloccano. Quasi non riesce a muoversi, proprio come avviene durante le sue crisi da sclerosi.
La paura dell’abbandono
In un’altra sessione racconta un episodio avvenuto molti anni addietro. In quell’occasione aveva completamente “perso le staffe” e si era arrabbiata fortemente con un fidanzato dal quale non si sentiva capita. Subito dopo provò disperazione ed una grande angoscia accompagnata dalla paura di perderlo. Era convinta che quell’uomo se ne sarebbe andato sparendo dalla sua vita. Secondo connessioni logiche, il blocco dell’aggressività, gestito attraverso meccanismi retroflessivi, è legato ad una grande paura di perdita, le cui origini vanno ricercate in epoche ancora più lontane. Ipotizzo che la convinzione arcaica, maturata da bambina, è che se esprime con forza le sue posizioni in contrasto con quelle dell’altro significativo, corre il rischio di essere abbandonata.
Allora frena l’energia oppositiva e la trattiene dentro. La retroflessione, dunque, è sostenuta da un nucleo cognitivo, un insieme di pensieri basati sull’idea che se manifesta la sua rabbia non sarà più voluta. La convinzione sostiene quello che diventerà poi un divieto interno, autogenerato, ad esprimere aggressività. Un divieto che inconsapevolmente si riproduce ogni volta che la situazione richiama pericoli già noti. Oggi è un’ingiunzione diventata anche fisicamente paralizzante. Reprime le reazioni naturali e per farlo si immobilizza, evitando così il rischio di una perdita più angosciante. La malattia colpisce soprattutto gli arti inferiori ai quali è connesso il movimento. Per sapere di più sulla logica e sull’organizzazione del sintomo cerco nel passato, nella sua storia. A questo scopo, con tecniche regressive di tipo gestaltico, creo un ponte tra l’esperienza di oggi e le sue probabili origini.
Il ponte con il passato
Si identifica nella bambina di sei o sette anni ed emerge un’esperienza significativa. È disperata sul lettino della sua camera dove da sola si consola e piangendo dice a se stessa: “Ti voglio bene, non ti lascio sola”. Viene fuori un tratto di autosufficienza che è strettamente connesso ad un’altra forma di retroflessione compensativa, polare alla precedente, attraverso la quale copre le sue carenze. Non potendo ricevere le carezze che vuole, se le dà da sola. In quell’occasione la madre non aveva voluto ascoltare “il suo punto di vista” e, come lei dice, si sentì “negata nell’esistenza”.
Però, si fermò, non reagì, bloccò la sua reazione, terrorizzata com’era che la mamma l’abbandonasse. “Se esprimo il mio -no- mi cacciano via”, sottolinea e, “se non mi ascoltano vuol dire che non ho alcun valore”. La conclusione conseguente è del tipo “mi terrò tutto dentro e loro non sapranno nulla”.
Così imparò ad evitare le sue di manifestazioni di protesta. Sono decisioni esistenziali prese precocemente che, come vedremo, oggi si riflettono nel sintomo. Scelte di sopravvivenza operate da una bambina per la quale reagire e far sentire le sue ragioni, le avrebbe procurato una perdita irreparabile.
In altre esperienze rivissute in terapia emerge chiaramente la sua tendenza al ritiro in sé, alla quale è strettamente connessa l’attitudine a trattenere e soffocare il dolore per la carenza di attenzione. È disperata e lo nasconde al mondo intero con stoica sopportazione. Questi, ancora in luce, saranno aspetti centrali nella formazione del suo carattere. E poi, proprio su quel lettino, cominciò a sentire i primi formicolii nel corpo.
Il rapporto con la madre
Si ripetevano ogni volta che riviveva quello stato di dolorosa solitudine e sono le stesse sensazioni che prova oggi quando si preannuncia una delle sue crisi paralizzanti. In altri momenti della terapia è emerso chiaramente il forte legame che ha con la madre. Non può fare a meno di lei e da bambina compie un sacrificio: vive “alla sua ombra”, come dice, e poiché non riesce ad avere quanto vorrebbe, se ne prende cura. Si preoccupa che non soffra e ne diventa la confidente. A suo modo, da bambina l’accudisce. “Tu eri l’unica amica che avevo” le ha detto recentemente la madre. La bambina coltivava l’illusione di poter ricevere, attraverso il suo sforzo “eroico”, le attenzioni di cui aveva bisogno. Naturalmente, non successe e presto si trovò a recitare il ruolo dell’adulta, prendendosi responsabilità che non poteva sostenere. La conseguenza fu la paralisi della sua vitalità. Si vietò di esprimere i propri bisogni ed accettò quelli degli altri come prevalenti.
La madre isterica e il padre debole e aggressivo non le lasciavano spazio. Decise di non prenderne. Oggi, incomincia a rendersi conto che ha rinunciato ad essere un individuo “separato”, ma nel fondo, nei suoi stati dell’Io arcaici è ancora presente, inconsapevolmente fissata, l’antica illusione che tutt’ora la condiziona. “Se voglio la sua presenza, non dico il suo affetto, le devo andare vicino, devo fare i servizi ed essere carina…non posso tollerare il suo distacco”.
Questa mamma è così fragile che neanche può vivere emozioni e la bambina decide di sacrificare il suo mondo emotivo, reprimendolo, per non portare “squilibrio” negli altri. “È come vivere sulle sabbie mobili…per non affondare è meglio non muoversi”. Una decisione che apparentemente la salva e, di fatto, le distrugge la vita. La linea guida è “non muoverti”, quando le cose si fanno difficili “non muoverti”.
Dal sintomo alla malattia
Oggi è la malattia che la costringe all’immobilità. I nuclei cognitivo-emozionali si riflettono a livello dell’azione e sul mondo sensoriale. Perde sensazioni nel corpo che durante le crisi diventa come di “gomma” e, in maniera strettamente connessa, cancella il sesso dalla sua vita, decisione avallata, per via collaterale, anche dall’idea di non essere “sporca”, così come considerava la madre, che di sesso le parlava con “poco contegno”, e in maniera volgare.
Seduta dopo seduta insieme costruiamo la storia e le ragioni del suo vivere attuale. Se conosciamo le regole della struttura possiamo cambiarla, suggeriva Perls. In questa prospettiva assumono particolare importanza le idee e i pensieri di fondo, i nuclei cognitivi sui quali le decisioni di sopravvivenza. “Posso esistere e avere uno spazio in questo mondo solo se vivo all’ombra di qualcuno”, un qualcuno dal quale, in definitiva, si aspetta protezione: ieri la madre, oggi il marito.
Questa convinzione è sostenuta da un’altra più arcaica: “Nessuno mi vuole, sono così presi dai loro problemi che per loro non esisto”, da cui discende la decisione: “Devo adoperarmi per loro perché si accorgano di me e così posso avere anch’io qualcosa in cambio”. Di fatto crea un legame indissolubile avallato da un mal digerito senso di responsabilità che le fa pensare di dover aiutare e proteggere la madre incapace di gestirsi la vita. Come già visto opera una scelta di sopravvivenza che però contiene anche la sua autodistruzione.
Oggi è consapevole che oltre alla rabbia ha represso soprattutto il dolore e la disperazione, emozioni che ancora non è in grado di contattare. Sente al suo interno un pianto senza fine che non si esaurisce e però “non sgorga, non viene fuori”. “Potevo tollerare tutto questo fuggendo nella fantasia” commenta. “Un giorno verrà qualcuno a salvarmi”, pensava.
È la storia del Principe Azzurro che naturalmente non verrà, ma che la lega ulteriormente alla sua condizione. “E poi, come una maledizione, mi sono svegliata” e nello scontro con la realtà ha preferito “addormentarsi”. In un’altra seduta, nei panni della bambina, afferma: “Se non posso esprimermi e se è inutile che chiedo, tanto non mi date, allora mi ritiro…non voglio morire…ma voglio stare con me con il mio dolore”. Nella solitudine si ricarica ma contemporaneamente rinuncia a qualsiasi alternativa. Prosegue dicendo: “Mi curo da me e questo mi serve per non lasciarmi morire”. Ne parla con tono spento, rassegnato. Segretamente attraverso il sintomo chiede che si occupino di lei e diventa sempre più passiva. “Nella mia camera mi cullo, mi consolo da sola. Mi dico stai tranquilla, ti voglio bene…ci sono io qua per te…mi carezzo fisicamente…” ripete, come già altre volte era emerso, e poi: “Un delirio” ella stessa commenta. “Il mio corpo si anestetizzava e così mi addormentavo”.
È quello che succede oggi con la malattia.
L’evoluzione del sintomo
In un’altra sessione, durante un periodo in cui il sintomo era particolarmente evidente lo descrisse dicendo: “Mi abbraccia come in una morsa al busto e alle gambe”. Le chiedo di identificarsi in quelle parti del corpo e così si esprime: “Sono una massa inconsistente, non mi sento, sono insignificante, nessuno si accorge di me…le gambe, le braccia, il seno vengono visti, ma a me non mi si vede. È come se fossi una massa morta”. Trapela la sua svalutazione di fondo: il poco valore che si attribuisce, il nucleo originario da cui discende tutto il suo Copione.
Identificandosi nella parte del corpo malata, rivela le sue credenze più profonde. A queste consapevolezze vissute nel qui ed ora, attraverso l’identificazione gestaltica nel sintomo, fanno da supporto le immagini emerse durante un lavoro regressivo in cui si immagina in una incubatrice.
Messa lì, tra lacci ed aghi, non si può muovere. “Sto bloccata…le gambe immobilizzate…non mi devo muovere”. È un tema ricorrente: stai lì, non ti muovere, immobilizzati, un complotto contro le sue spinte vitali. “Ci sono persone intorno che mi toccano, mi manipolano, ma nessuno sa cosa sto vivendo davvero”. Mantiene il segreto e così conserva la sua dignità alla quale tiene molto. Proprio in questa scena emerge la decisione di protocollo: “A me ci penso io, nessuno mi può aiutare… non voglio tutto questo fastidio…questa agitazione…andate via”. La invito a sentire cosa vive nel suo corpicino così invaso e spontaneamente fa gesti per liberarsi da tutti quegli strumenti che la tormentano: “Andate via, non vi voglio più addosso”. E poi di nuovo la rinuncia: “Se devo morire, lasciatemi morire in pace”. È la stessa rassegnazione di oggi. Diventa passiva e perde volontà. “Meglio il silenzio, la solitudine che tanto arido frastuono…vengono, toccano…palpano, come se fossi una bambola di stoffa. È tanto il fastidio dentro che non sento più niente”. Si anestetizza per non soffrire. La invito di nuovo a reagire e riprende vitalità. “Via…via…” dice con forza e si strappa simbolicamente lacci e tubi dal corpo. “Via…” ancora dice, e fa il gesto di scorticare qualcosa che le sta nella pelle, nella carne.
In queste immagini drammatiche c’è tutta la sua storia. La madre bambina che la opprime e la angoscia con richieste di protezione, il padre, il suo “amore” che la delude, rivelandosi debole e violento, incapace di svolgere il proprio ruolo. I litigi tra i genitori e poi la madre che l’accusa di non averla difesa. Il marito egoista e insensibile, centrato com’è sui suoi bisogni. È il mondo delle introiezioni dal quale tenta disperatamente di liberarsi strappandolo simbolicamente dal suo corpo.
Nessuno le offre qualcosa di nutriente, non c’è amore per lei. È un momento di contatto importante e la stimolo chiedendole cosa le piacerebbe ora. Mi risponde, in maniera timida, da bambina: “Ci vuole calma, delicatezza, voglio essere toccata delicatamente, sentire bacetti leggeri…”. Sorride ora, e il suo volto, di solito esangue, è rosso vivo. “E da chi vuoi queste carezze?” le chiedo. “Da chi?… da una persona tenera, una persona che provi piacere a giocare così. Io non mi sento come una bambola. Una persona che mi stringa al petto… senta il battito del mio cuore…” “E ora?” continuo sollecitando una sua ulteriore apertura “…Desidero sentire una stretta forte, che dia sicurezza…Devo sentirla potente…e con spazio intorno a me…Questo mi tranquillizza. Se la stretta è troppo forte è come se mi perdessi”. “Sì” annuisco. Si ferma, tace per un po’ e poi: “Ora mi sento sazia” dice.
Poiché la vedo col viso disteso, l’espressione morbida e ancora il volto colorito, le chiedo: “Come senti ora il tuo corpo?” per rinforzare la consapevolezza dell’esperienza appena vissuta e sollecitare il contatto con quel corpo che mai mi era apparso così vivo. “Non lo sento proprio” dice, e poi parlando di se stessa in terza persona: “E’ pietrificata, dura, rigida…senza vita…neanche soffre”. Vive una scissione, sembra che il corpo non sia suo, non le appartenga, non può permettersi di sentirlo vivo.
Oggi siamo a questo punto della terapia. L’obiettivo, anche se estremamente difficile, è di rallentare l’evoluzione dei suoi sintomi e di creare uno stato di maggiore vitalità che le permetta, sebbene con i limiti dovuti all’infermità, di essere più aperta a nuove prospettive e a costruirsi un’esistenza fatta a sua misura e non come gli altri la vogliono. Effettivamente le crisi sono diminuite come frequenza e intensità, anche se di poco. La paziente ha nuovi progetti e sente forti spinte a cambiare le vecchie situazioni familiari che ormai non tollera più. D’altro lato, la dipendenza che può diventare fisicamente sempre più effettiva, come accade nella prassi della sua malattia, ovviamente la spaventa e la frena per cui, al di là delle speranze, è molto difficile immaginare il suo futuro.