Una Gestalt per i nostri tempi

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Una Gestalt per i nostri tempi

Pubblicato in: Psicoterapia della Gestalt contemporanea, a cura di Maria Menditto – Franco Angeli s.r.l. – Milano 2011.

 

“La Gestalt è la terapia che cerca la persona al di là delle maschere e dei ruoli, nella sua naturalezza. Che l’uomo accetti di essere così com’è”.

Premessa

La psicoterapia della Gestalt, il movimento gestaltico, non è soltanto un approccio rivolto alla cura del malessere psicologico. I principi sui quali si fonda hanno un valore che non decade con il cambiare dei tempi, anzi, diventano più pregnanti e formano cultura. Sono principi validi per la società in generale e per l’educazione. Rendono più significative le relazioni umane.

Nel corso della sua storia la psicoterapia della Gestalt ha risposto alle diverse stagioni che hanno attraversato il nostro mondo a partire dall’inizio degli anni ‘40, epoca in cui F. Perls incominciò a trasformare la sua visione di psicoanalista, portando avanti il processo già in nuce sul finire degli anni ‘20. Per un tempo i nuclei originari vennero lasciati sullo sfondo a favore di altre forme che, pur avendo un certo valore per la prassi terapeutica, ed anche per dare alla psicoterapia della Gestalt un’apparenza scientifica, come volle lo stesso Perls, di fatto oscurarono le sue prime intuizioni, per proporre “verità” teoriche che tesero a centrare il focus dell’approccio su certi aspetti, escludendone altri. Ho già trattato questi temi in altre occasioni[2].

Alcune delle proposte del dott. Perls presenti in L’Io, la fame, l’aggressività, lasciate da parte nell’epoca in cui fu elaborata la teoria del sé, ritornarono con nuova vitalità nel vecchio “Fritz” della fine degli anni ‘60 quando, finalmente pacificato, la sua genialità si incontrò con la saggezza. Claudio Naranjo che ebbe un contatto complesso, anche conflittuale, con il maestro, dopo la sua morte apprezzò ancora più il valore e la profondità dell’insegnamento ricevuto.

Divenne lui stesso leader di Esalen, raccolse l’eredità di Perls e sviluppò ulteriormente il suo messaggio, portandolo a forme più articolate e aprendo nuovi spazi alla psicoterapia della Gestalt. Introdusse l’idea di integrare la psicoterapia e la meditazione[3], ispirandosi per il suo modello a quanto andava apprendendo da maestri di varie tradizioni. Fu la sua bandiera come egli stesso dice[4]. E aggiunge: “Nella psicoterapia si riflette sui problemi e si pensa. Nella meditazione non si elabora e non si pensa a ciò che fa male, e questo aiuta. E però non è facile, sempre ci sono problemi, e allora per meditare bene ci vuole un po’ di terapia. Chi ha la mente troppo occupata non può meditare”.

Due ispiratori

Max Reinhardt

Voglio tornare alle premesse e ricordare le prime intuizioni di Fritz Perls, esplorarne gli sviluppi successivi e mettere in luce quanto oggi siano ancora attuali e quanti spunti possano offrire proprio per i fenomeni del nostro tempo.

Mi sembra che Perls, tra i tanti, ebbe due grandi ispiratori. Un maestro di teatro, Max Reinhardt e Friedlaender, un filosofo. Dalle ricerche fatte da Lisboa da Fonseca[5] risulta che Perls partecipò dall’età di 14 anni ad attività teatrali ispirate alle concezioni di Reinhardt, a Berlino, a partire dagli inizi del secolo XX, fino alla decade degli anni ‘30. Per molto tempo, quindi, Reinhardt propose modi rivoluzionari di far teatro, cambiando quei modelli che lo avevano caratterizzato da secoli, impregnandone la cultura. Fu persona poliedrica, attore, regista e proprietario di teatri in Germania e Austria, prima del nazismo.

Il suo fu un teatro naturalista. Spostò l’attenzione sull’espressione e sulla “singolarità personale”. L’attore si ispira alla propria esperienza soggettiva, diventa personaggio senza cedere alla riproduzione di una realtà obiettiva, quindi, a modelli precostituiti che suggeriscano come deve essere il postino, l’impiegato di banca, un malato terminale.

Il personaggio viene assimilato dall’attore il quale, interpretandolo, di fatto esprime se stesso. Lo riduce ai suoi modi di essere e lo incarna. Chi lo interpreta non è altro dal personaggio. Questa forma di intendere la rappresentazione, nella quale cambiano anche le distanze tra attore e pubblico, gli spazi scenici si allargano, fino ad includere lo spettatore.

C’è più verità e l’esperienza immediata va in primo piano, il teatro diventa più vivo e a partire da una base stabile, si arricchisce di imprevisto. Si apre uno spazio per l’interpretazione creativa. Reinhardt voleva mostrare il carattere illusorio della realtà obiettiva del positivismo. Lo stesso principio di realtà è illusorio. Il fluire dell’esistenza non è nell’ordine degli eventi già stabilizzati, ma nello sperimentare il possibile.

Siamo tutti interpreti ed ermeneuti in senso fenomenologico. La vita è come il teatro. Per Reinhardt “Esistiamo pienamente nella misura in cui rischiamo di vivere la nostra vita, alla nostra maniera, assolutamente singolare”, unica, “con il suo carattere propulsivo, la sua potenza e la sua progettualità”.

Mi sembra che F. Perls accolga e faccia suo l’insegnamento del maestro. Di fatto, nella concezione e nella pratica gestaltica, così come da lui proposta, il terapeuta lascia da parte le conoscenze teoriche e tecniche, che restano sullo sfondo, ed entra in relazione diretta con l’altro interprete, il paziente, e in rapporto con lui, come persona, porta il proprio mondo e la sua maniera di essere.

Al di là delle teorie, entra nella relazione, con il proprio vissuto. Il terapeuta mobilizza il paziente e lo sollecita a diventare pieno interprete, attore, ma anche artista, coinvolto nel dramma della sua esistenza. Nel mio teatro, che chiamo “Trasformatore”, il paziente mette in scena personaggi, proprio come fa un attore, che hanno per lui caratteristiche sconosciute o inesplorate.

Uso tecniche teatrali e quelli che suggerisco sono ruoli che spesso propongo affidandomi all’intuito. Invito i partecipanti ad organizzarsi in coppie o piccoli gruppi e di preparare un breve copione, una storia che poi rappresenteranno. In momenti successivi le stesse scene verranno trasformate, i ruoli cambiati e si darà spazio all’improvvisazione. A momenti strutturati ne succedono altri di pura spontaneità.

Il teatro diventa momento di vita. Si sperimentano nuovi modi di sentire e nuovi comportamenti. Il paziente interprete porta se stesso nel personaggio e questo ne assume le caratteristiche. Attraverso la recita del ruolo, l’attore si scopre, prende consapevolezza e può riconoscere aspetti di sé tenuti nascosti.

Prende posture, fa gesti, sperimenta emozioni e modi di sentire che il personaggio stesso sollecita. Anche il modo di pensare viene influenzato. Ma non c’è niente che venga da fuori, soltanto gli stimoli sono esterni, il repertorio già gli appartiene, è già tutto suo. Quello che succede è che nel teatro il paziente attore ha il permesso di esprimerlo e seguendo l’insegnamento di Perls gli facciamo intendere che la sua vita è assolutamente “personale”, non importa quali influenze abbia potuto subire e quali adattamenti prediligere.

Ciascuno di noi porta avanti il suo Copione, nel proprio modo, che è quello che ha scelto. Possiamo cambiarlo, però le circostanze sono sempre diverse. Si può anche improvvisare e capire dopo, se proprio si vuole, la storia che si è costruita. Nel frattempo l’abbiamo vissuta.

L’improvvisazione porta magie. Il bambino, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, fa programmi, vuole certezze. L’adulto può oggi sperimentare la creatività infantile che non ha vissuto. Ora ha maggiori appoggi e più sicurezze.

Nella psicoterapia della Gestalt di Perls, il paziente viene facilitato e, a volte, spinto a scoprire soluzioni ai suoi blocchi. Primo passo è quello di prendere consapevolezza del come provochiamo i nostri disagi e assumersene la responsabilità.

Lo si può fare con gli strumenti teatrali, attraverso l’identificazione con se stesso, come interprete, attore che mette in scena il suo personaggio e guardandosi apprende da se stesso. Esprimendosi, spontaneamente, si svela. A sé e all’altro. Il corpo, le emozioni, il pensiero si attivano durante l’azione drammatica ed emergono nuove consapevolezze.

C’è sacralità nella scoperta di sé e nel proporsi in maniera autentica. C’è sacralità nel teatro stesso. È nella tradizione, nelle sue origini che affondano i rituali mistici.

L’espressione emerse naturalmente nel Ditirambo. E di lì si sviluppò il dialogo e poi il dramma. Perls degli anni ’60, fu ispiratore di artisti dell’epoca come Giulian Beck e sua moglie Melina, con il loro Living Theatre.

Ho ancora l’immagine dell’intera compagnia che fuori dal palcoscenico, tra gli spettatori, si muoveva ritmicamente mentre recitava in maniera ripetitiva, hic et nunc, quasi un mantra, risvegliando negli spettatori un senso di drammaticità dettato semplicemente dal suono e dal loro movimento. L’esperienza evocata dalle voci e dall’espressione fisica degli attori, senza bisogno di storia né di trama, di contenuti evidenti, trasmetteva stati d’animo ed emozioni. Comunicava sacralità.

 

Salomon Friedlaender

Voglio adesso guardare all’altro ispiratore, Friedlaender. Perls ne conobbe il pensiero attraverso il neurofisiologo Kurt Goldstein, che era amico del filosofo. Ma ebbe anche contatti diretti. Entrambi, Perls e Friedlaender, frequentavano ambienti artistici ed intellettuali, quali i Caffè di Westens e Romanische di Berlino.

Queste esperienze avvenivano alla fine degli anni ’20, quando Perls era impegnato nella sua formazione psicoanalitica e, lavorando con Goldstein, apprendeva a considerare le lesioni organiche di reduci di guerra in maniera olistica e a dare una particolare attenzione alle integrazioni tra organismo e ambiente.

Sotto altri aspetti, secondo Granzotto[6], come Perls, il filosofo neokantiano Friedlaender, “non era interessato a discutere se i fenomeni fornissero fondamento concreto per le leggi psicologiche o se essi fossero, oppure no, il correlativo di principi teleologici universali”. D’altro lato l’idea basica di Friedlaender, era che i comportamenti non sono solo effetto di storie passate che influiscono nel presente, come voleva la concezione psicoanalitica, “ma l’espressione di una dialettica spontanea che si manifesta nel presente”. Il filosofo la denominò “indifferenza creativa”.

Nella concretezza della nostra esistenza, possiamo riconoscere una “spontaneità creativa” la cui “intenzione” è quella di equilibrare polarità opposte che vanno a costituire unità provvisorie, che non durano nel tempo. Sono i “fenomeni”. La naturale tensione verso l’equilibrio mantiene lo stato di provvisorietà, e proprio per il fatto che non esistono realtà stabili, cioè, condizioni permanenti, siamo in un continuo processo di adattamento.

Infine Perls, per effetto delle influenze di Friedlaender e di Goldstein, propone una psicoanalisi riformata, che sposta l’attenzione dalle concezioni psicologiche, ad una maniera di pensare organismica, che permette di applicare il “pensiero differenziale” basato sulla “indifferenza creativa” di Friedlaender.

Secondo i Granzotto, Friedlaender, piuttosto che stabilirne i principi costitutivi, voleva descrivere la successione degli atti coinvolti nell’esperienza di un fenomeno. Nel concetto di pensiero differenziale della realtà, che si trova a metà strada tra “orientamenti materiali opposti” ed il concetto di indifferenza creativa, Perls trova gli elementi per descrivere la dinamica dei ‘tutti olistici’ che io intendo come gli insiemi nei quali si condensano le esperienze in forma unitaria, ma anche la possibilità di distinguere i ‘tutti’ dagli episodi contingenti, ovvero, quegli elementi costitutivi sui quali, di volta in volta, può focalizzarsi l’attenzione dell’osservatore.

Le tesi di Friedlaender permettevano la descrizione delle esperienze, di quanto accade, senza dover ricorrere ad un agente esterno. Perls, al di là di ulteriori speculazioni di Friedlaender che, sostanzialmente, da filosofo, criticava Kant, era interessato solo alla sua idea di indifferenza creativa: fattore che, grazie alla spontaneità creativa, che ne è la manifestazione percepibile, può produrre un senso di totalità.

Di conseguenza, possiamo dire che i sistemi complessi si organizzano e si sviluppano per effetto della spontaneità creativa. Allo stesso tempo, Perls, con l’idea di una struttura provvisoriamente stabile, frutto di pensiero differenziale e indifferenza creativa, stava ponendo in primo piano il valore dell’esperienza, che è compiuta in sé, senza bisogno di anticiparne i contenuti che, peraltro, non saranno mai pienamente corrispondenti a quanto soltanto l’esperienza può rivelare.

Raccontare un tramonto è molto diverso dall’esserne spettatore. È il grande contributo che Perls portò nel mondo della psicoterapia. Al di là delle parole e delle astrazioni, viviamo nel mondo concreto. L’esperienza rivela il proprio effettivo modo di esistere, a se stessi e agli altri. È una verità percepibile al di là di concetti, contenuti e teorie.

Altro punto importante è che l’uomo, fin dalla fase della dentizione, è provvisto di “intenzionalità”, di “un punto zero creativo”, dice Friedlaender, ed è questo che coordina l’azione del bambino ancor prima, quindi, che si sviluppino le capacità cognitive.

Perls concepisce un ego senza sostanza e senza corpo, la cui funzione è quella di organizzare l’esistenza. Questo ego è una funzione, una “cosa astratta”, quindi, non una parte dell’organismo. Lo stomaco, ad esempio, ha tessuti che lo formano, succhi gastrici ed altri elementi che lo rendono concreto, ma la funzione del digerire è astratta e, tuttavia, reale. La nevrosi è una limitazione delle funzioni dell’ego, è quindi una interruzione del flusso di “awareness”, della consapevolezza, non il risultato di una censura che l’ego stesso mette in atto.

Come risultava dagli esperimenti di Goldstein, c’è una capacità di autoregolazione che permette di trovare nuovi equilibri per compensare le infermità. Perls tradusse questa capacità di autoregolazione, nei termini della filosofia di Friedlaender, il quale la considerava una zona di equilibrio tra forze opposte, con la funzione di produrre stabilità, anche se per un tempo limitato esiste da prima della formazione dell’ego. Non è una sua parte. È una spontaneità creativa, un’intenzione organismica, l’awareness, che Perls chiama “ego insustanziale”, senza sostanza. In questo modo, Perls si allontana dalla concezione secondo la quale l’origine di ogni fenomeno è nel mondo pulsionale e, pur continuando a presentarsi come psicoanalista, per molti anni ancora, prese netta distanza da Freud.

 

Lavoro con le polarità

Siamo all’inizio degli anni ‘40. Nella teoria e nella pratica terapeutica di Perls, fu centrale la presa di una visione della realtà per la quale tutto quanto, forma l’esperienza, i suoi elementi costitutivi, e viene orientato o verso l’unificazione, punto nel quale l’esperienza si stabilizza e si conserva, o verso la distruzione che apre allo sconosciuto e alla crescita.

Nello stile gestaltico, che ho appreso nei primi anni della mia formazione, era comune l’invito del terapeuta a correre “un rischio”. Sono il nuovo e l’inedito ad offrire stimoli per ulteriori sviluppi, ed è proprio la dinamica tra le polarità che porta ad esperienze sconosciute e, quindi, inaspettate, frutto di spontaneità creativa.

Da questa stessa visione di Perls emerge una concezione terapeutica per la quale diventa centrale integrare le parti. Gli aspetti del sé che si manifestano separati, per effetto di un incontro-scontro formano una nuova unità.

In pratica è quello che possiamo fare nel lavoro con le due sedie. Creiamo un dialogo tra le polarità e lo organizziamo in maniera tale che elementi di una delle parti vadano a riempire “buchi” e carenze dell’altra. Ad esempio, se vengono messi a dialogo un aspetto fragile ed uno violento, il fragile per principio di autoregolazione integrerà la sua carenza di forza, prendendo dalla aggressività sana che si nasconde dietro la violenza. Mentre l’altro, il violento potrà trasformare la rabbia eccessiva assumendo caratteristiche più miti. Favoriamo un equilibrio tra opposti utilizzando un principio, per il quale gli spazi vuoti naturalmente tendono a riempirsi. Le Gestalt aperte reclamano chiusura.

Barrie Simmons, mio primo maestro in psicoterapia della Gestalt, faceva mirabilmente questo lavoro. Le parti dialogavano tra loro, che fossero il sole e l’albero, o il gatto e il bambino, e l’obiettivo era quello di creare dall’incontro-scontro nuove consapevolezze e, per loro effetto, nuove integrazioni. Le due parti si arricchiscono a vicenda, ciascuna delle due offre qualcosa all’altra, anche nel caso in cui, su una delle sedie, “segga” un mostro o un incubo. “Io ti do, tu mi dai”. Le parti riorganizzano l’intero in forme nuove, prima sconosciute. Il mostro può essere forza, coraggio, l’uccellino può portare dolcezza, fragilità. Nell’integrazione gli opposti creano una nuova forma. La persona si rinnova.

 

La processualità

Quanto precede può far dedurre che la Gestalt sia una terapia processuale, che lavora nel “qui e ora”. Ciò è vero ma bisogna intendersi. E qui voglio sottolineare un punto. La processualità è intesa, generalmente, come una maniera di “fare” terapia. Ma non credo sia solo questo. Stare nel processo è un modo di sperimentare concretamente il fluire della propria esistenza, con attenzione consapevole ai suoi continui cambiamenti.

È il “continuo” di consapevolezza che viene riportato nella vita quotidiana. Un punto di arrivo, quindi, una meta. Al contrario, quello che succede è che il processo si cristallizza e la quotidianità è dominata da forme di sentire e pensare rigide e stereotipate, organizzate in strutture caratteriali che si fissano in comportamenti ripetitivi, sempre uguali a se stessi, giorno dopo giorno e tengono le persone prigioniere della propria immagine e dei propri Copioni, forme stereotipate, immobili nel tempo.

La psicoterapia della Gestalt di Perls contrappone alla cultura della tenacia e dello sforzo, il recupero della saggezza naturale. La si trova lasciandosi andare al fluire consapevole dell’esperienza, come nella via del Tao.

Per Eric Berne lo sforzo viene da un ordine genitoriale che blocca la creatività del bambino libero. Lavorare per la processualità comporta una visione più ampia, quindi, che guarda agli obiettivi, invita a “stare” nel “continuo” che diventa forma di vita, e non è solo un modo di operare, un particolare utilizzo di metodologie e tecniche.

Scienza e vuoto

Le origini del cosmo

Edgar Morin[7], ricorda che, secondo le concezioni attuali, l’intero universo apparve in seguito ad una deflagrazione termica, dalla quale inizialmente si sprigionò pura luce. Questa è la matrice di tutte le cose. È comprensibile che simili scoperte abbiano influenzato l’animo dell’uomo dei nostri tempi.

Nelle concezioni arcaiche del mondo, all’origine, è il caos, che non è disordine, ma “l’unione indifferenziata e generica di ordine, disordine e disorganizzazione”. Poi vennero le divinità mostruose, i Titani, poi l’armonia degli dei dell’Olimpo.

Nell’ultimo secolo, da Einstein in poi, attraverso le ricerche scientifiche si afferma sempre più l’idea dell’assenza di un Dio creatore. All’origine non ci fu un ente che generò, un padre di tutte le cose, ma piuttosto una matrice, che dette vita ad ogni fenomeno che si manifesta: il vuoto. Come nella filosofia cinese e nella tradizione buddhista. Ma ora, tutto questo è supportato dalla scienza, dagli astrofisici, tra i quali Michel Cassé, coautore con Morin di Alle origini del cosmo.

Ho ricevuto tempo fa per posta elettronica i risultati di una ricerca fatta da uno scienziato italiano, Corbucci, tenuta nel cassetto per molti anni, che tra poco verrà pubblicata in un libro. Secondo questo ricercatore, non ha senso trovare la particella che, acquistando massa, dà vita alla materia, per il semplice fatto che la presunta particella è un buco. Da questo buco nero, piccolo come un “atomo infinitesimale”, viene fuori tutta la materia dell’universo. Dall’infinitamente piccolo emerge l’infinitamente grande. Tutto questo ha dell’incredibile. La scienza si è spostata sulla ricerca del vuoto, del nulla. Queste scoperte, che siano conosciute o sconosciute ai più, si respirano nell’aria, in maniera consapevole o inconsapevole.

L’uomo perde i riferimenti tradizionali e si trova di fronte ad un “nuovo”, talmente diverso dal pensiero comune, che è molto difficile capire e poi integrare. Non ne ha gli strumenti che, al contrario, le tradizioni orientali possedevano e ancora posseggono, anche se oggi sono meno accessibili.

Gli uomini del nostro tempo hanno paura, le nuove visioni che porta la scienza fanno paura. Al posto del Padre creatore c’è il vuoto. E il vuoto fa paura. Pascal lo dice in maniera poetica e Morin lo riporta: “L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi spaventa”.ù

 

Perdita di riferimenti

Le ultime generazioni hanno vissuto la perdita di riferimenti certi che avevano i loro padri o, più ancora, i loro nonni. In verità, nel secolo scorso si è parlato del nulla, filosofi, pensatori l’hanno fatto, di un nulla disperante[8] o passivamente accettato, rinforzato dal diffondersi dell’ateismo e da

culture che hanno privilegiato gli aspetti materiali della vita. Quasi una nuova fede. Più beni, più bisogni, più piacere. Quello che nacque come cultura di giustizia sociale – distribuire equamente la ricchezza – ha preso con il tempo altre direzioni: si è trasformata in un grande fenomeno di ‘distrazione’, di allontanamento dal senso di sé, associata alla perdita di valori e al disinteresse per le tensioni dell’animo.

Lo stesso Freud, in nome dell’autonomia e della liberazione delle pulsioni naturali, appoggiò l’ateismo[9]. Definì la religione una forma ingannevole di investimento, che, in pratica, distrae l’uomo dai propri stati di disagio e dalle proprie impotenze. È la precarietà del vivere che lo spinge ad inventarsi la trascendenza e Dio[10].

Diverso è ciò che propone il Buddhismo che, pur definendosi ateo, propone un benessere dello spirito che va in direzione di valori superiori, quali l’amore altruistico, la compassione e la ricerca dello stato divino che ogni essere porta in sé. Come dire che ogni uomo non ha bisogno di un Dio esterno, perché egli stesso ha tutti i potenziali necessari per una totale realizzazione spirituale.

D’altro lato la religione secolarizzata, istituzionale, si è spesso proposta con divieti e regole, punitiva. Ha poco coltivato uno scambio amoroso effettivo. L’amore cristiano è stato predicato, piuttosto che praticato. La cultura dei “no” produce nevrosi, nel senso utilizzato da Perls e ad essa ci si appoggia. La nevrosi diventa un apparato difensivo, che, da un lato, limita la spontaneità dell’esistenza e, dall’altro, protegge dai rischi che si corrono disobbedendo.

 

L’intuito e lo sconosciuto

Per un’effettiva autonomia è necessaria la consapevolezza e la capacità di operare scelte proprie non condizionate dai credo resi culturalmente collettivi.

Il genitore, quello sociale, portatore di tradizione e storia, è il tessuto nel quale si nutrono e crescono i genitori biologici i quali sono, come è ovvio, emanazione del loro mondo di appartenenza e ne portano i valori. C’è continuità tra la cultura, i credo, i principi guida di  organismo sociale e i suoi componenti. La stessa psicoterapia permette di coglierlo. Ci sono linee invisibili che connettono le generazioni tra loro e, orizzontalmente, le persone che si incontrano nel mondo attuale.

Siamo interconnessi, anche se in maniera inconsapevole, e influenzati l’uno dall’altro. È sufficiente “guardare” per rendercene conto, utilizzando anche “organi” più capaci di cogliere lo sconosciuto, ad esempio, l’intuito. O permettere che la spontaneità naturale emerga dal corpo e che questo si muova nella direzione della persona che sceglie, istintivamente, così come accade nel lavoro di B. Hellinger[11] con le costellazioni familiari. Allora, il movimento interno diventa azione “intelligente”, ed è possibile che si realizzi un incontro con qualcosa di nascosto, o con qualcuno, in maniere del tutto inaspettate. Possono emergere stati emozionali repressi e comprensioni che danno consapevolezza.

Nel gruppo in cui il paziente agisce può scoprire in un altro componente una persona molto vicina, come la madre o una sconosciuta che, magari, attraverso generazioni, ha influenzato la sua vita e in quella situazione viene rappresentata, senza che se ne sappia nulla, da un’altra persona. Sono esperienze attraverso le quali si scoprono connessioni inconsapevoli con il resto del mondo. Connessioni che influenzano inconsciamente le persone nella loro quotidianità. L’intuito che porta a comprendere l’invisibile sembra una qualità da sciamano e il terapeuta esperto un poco lo è.

 

Struttura e physis

Quando l’uomo si scopre senza riferimenti, e questo da sempre, che siano appoggi che provengano da dimensioni superiori, o siano limitati al cerchio ristretto della famiglia, i genitori, o in maniera più estesa, alla società, al mondo in cui vive, ha paura. Siamo guidati da un istinto di conservazione. Vogliamo proteggere la nostra esistenza e per questo abbiamo bisogno di supporti concreti, protezioni effettive o idee guida sulle quali appoggiarci.

Eric Berne[12] parla di “fame” di struttura per quanto essa è importante e la considera una necessità biologica. La struttura nasce da un principio organizzante molto legato alla physis della concezione greca. Berne ne parla in termini di una forza “che eternamente lotta per far sì che le cose crescano e diventino più perfette”, ricorda Petruska Clarkson[13]. Si tratta di un processo creativo sotteso all’esperienza psicologica umana. L’autrice fa riferimento ad Eraclito, per il quale la phisys è il continuo processo di cambiamento nel quale sono coinvolte persone e cose. “Niente esiste, solo il cambiamento è reale, tutto passa”.

Ma è proprio il cambiamento continuo, l’esperienza della dissoluzione di ciò che si è prima organizzato, un processo naturale, che paradossalmente fa paura. Quando le cose perdono la struttura, si dissolvono nel tutto e il tutto continua ad esserci, ma le cose no. L’uomo “cosa” ha paura di perdersi nel tutto. Berne, che si occupa soprattutto di come curare, focalizza la sua attenzione sul potenziale di crescita della physis, che permette l’evoluzione degli organismi e la guarigione delle malattie. È una forza che sostiene la fatica del crescere e dell’evolversi e questo è simile a quanto dice Perls sull’indifferenza creativa, che in più si interessa della presenza di uno stato originario: il vuoto.

 

Il bambino eidetico e l’essenza

In effetti, il valore delle forze creative ed evolutive ha come polarità l’incertezza dell’esistenza, la precarietà, e l’uomo, attaccato alla concretezza del quotidiano, teme il continuo fluire, regolato da leggi che non conosce e non governa.

Allora si rifugia nella propria immagine. Inventa una forma esistenziale attraverso la quale soltanto crede di poter sopravvivere, e infine si identifica in essa. Esiste in quanto si riconosce in un modello, quello che ha scelto. Così facendo l’uomo diventa “oggetto” e perde la relazione con la sua natura. Nella cultura del ‘900, si parlò di essenza e fenomeni. Husserl fu tra i primi. Il fenomeno è ciò che si manifesta, il visibile, e l’essenza è l’invisibile. Qualcosa che è al di là della concretezza, intrinseco all’oggetto, un quid al quale è difficile arrivare.

Il filosofo propone di osservare la realtà senza alcuna mediazione e senza il tramite di teorie. L’immediatezza della visione, garantisce l’autenticità del fenomeno, che in tal modo diventa fonte di conoscenza più vera. I pre-concetti, le valutazioni e i giudizi precostituiti, non permettono di vivere l’esperienza per come si presenta, come pura percezione. Il bambino dice E. Berne[14], guardando una rosa può esprimere un ah… di meraviglia.

È spontaneo nel farlo, non pensa alla forma, non attribuisce nomi, né definisce il colore. Coglie l’essenza, vive un’esperienza piena, eidetica. Una realtà così conosciuta dà un senso di pienezza e di autenticità. L’adulto ha perso questa capacità spontanea e secondo Berne per conseguire una effettiva autonomia gli tocca paradossalmente tornare al bambino, libero dai condizionamenti e dalle valutazioni apprese dai grandi.

Guardare la realtà definendola la rende estranea, fatta di “oggetti” e questo toglie interiorità alla vita. Come l’essere intimo. Cessa nel momento stesso in cui interviene il giudizio. In effetti, Husserl aspira ad “una nuova spiritualità… perché soltanto lo spirito è immortale”. L’uomo aspira a qualcosa di più sottile, ma è complicato e per non perdersi preferisce attaccarsi ai propri schemi, alle mappe esistenziali già conosciute e si limita a vivere un “come se”, crea un’immagine che però è effimera.

È soltanto frutto di un adattamento, una forma tra le tante possibili. Poi ci sono i bisogni, i desideri, e l’uomo soffre, perché non riuscirà mai a soddisfare tutto quello a cui anela. È questa la matrice della sofferenza? Un attaccamento a soddisfarsi come valore in sé? I bisogni fondamentali sono pochi. Molti sono inventati. Li produce il mercato. Viviamo in un mondo pieno di ogni cosa, che offre articoli e beni di ogni specie.

Non a tutti ovviamente, ma perlomeno a una parte del mondo. È vero che molti non possono usufruirne non hanno la capacità economica. Ma quelli che possono? Anche per loro continua il malessere. All’origine della sofferenza c’è una scissione primaria, che appartiene all’essere. La separazione dalla propria natura profonda. Nelle tradizioni spirituali si fa riferimento ad un tempo in cui dal caos o dall’unità emersero fenomeni separati. Così si formò la realtà oggettiva, percepibile dagli organi di senso e valutabile attraverso le funzioni cognitive.

La perdita di unità o di appartenenza ad un insieme che contiene, porta a qualificare la realtà, a dare nomi, stabilire categorie e questo serve per coprire lo smarrimento di chi è “gettato nel mondo” e non ha riferimenti. Passando dall’unità alla separazione, si incontrano oggetti con i quali interagire, che sono altro da sé, implicano uno sforzo di conoscenza e di interazioni, può nascere smarrimento. E tuttavia è così che l’uomo si individua e l’individuo si determina. Prende la sua maniera di essere e facendolo, contemporaneamente si allontana dalle matrici originarie, perde il contatto con l’unitarietà da cui proviene. Crea i suoi sistemi adattivi, che sono per sopravvivere, ma si dimentica di sé, si identifica nelle forme provvisorie che assume e si allontana dall’essenza

 

La crisi del nostro tempo

L’uomo si dimentica di sé e questo da sempre, da che c’è l’umanità. Oggi viviamo un tempo di crisi. È vero. Non credo tuttavia che questa epoca sia peggiore di altre. È diversa. Le crisi sono costituzionali, intrinseche all’esistenza, e sono la premessa per un rinnovamento. Come terapeuti sappiamo che i nostri pazienti e noi stessi soffriamo, e a volte profondamente, prima di un cambiamento.

Nella storia dell’umanità è uguale. Oggi abbiamo fenomeni nuovi e quindi nuove problematiche. La Gestalt ha i potenziali che servono per affrontarli creativamente e i gestaltisti sono chiamati a dare risposte. Mi colpisce che in questo periodo storico siano aumentati gli incontri ufficiali tra gli appartenenti alla comunità gestaltica italiana.

Parliamo di più tra noi e ci sono anche tentativi di intendersi, di ascoltarsi e capirsi. Credo che le difficoltà di questo tempo stiano implicitamente mandando i loro messaggi e con linguaggio inespresso invitino ad agire più coerentemente con la nostra epoca. Che sia l’autoregolazione organismica? Forse sì, ma per rispondere agli stimoli che la crisi ci invia, occorre raccoglierli e intervenire anche con i nostri contributi.

 

Il terrore e la saggezza

Quando entrai nel mondo della terapia, all’inizio degli anni ‘80, si parlava molto delle patologie borderline. Era difficile lavorare con loro. Personalità scisse, instabili, destrutturate, con difficoltà a creare legami. Pazienti con genitorizzazioni incerte che non si affidavano al terapeuta. La società del tempo aveva perso i riferimenti storici e le patologie, nate da culture più restrittive, lasciavano il posto ad altre che erano il prodotto di forme di libertà conquistate sul finire degli anni ‘60, che tuttavia non portarono alla creazione di nuovi e congruenti sistemi di valori.

Oggi credo, che i fenomeni si siano ulteriormente accentuati. È aumentata la mancanza di riferimenti e ci troviamo di fronte a disagi psichici che difficilmente possono essere definiti. La società è cambiata ancora, e sono massivamente subentrati nuovi modelli sociali che si autogenerano, sconosciuti agli stessi propositori. Non hanno matrici riconoscibili. Interi sistemi si organizzano “inconsciamente” per produrre frutti che nessuno ha pensato né immaginato.

La mescolanza di pezzi di famiglie ad esempio nelle quali i figli di un partner non sono i figli dell’altro e magari convivono, compagni dell’uno o dell’altro interagiscono tra loro, creano fenomeni interattivi nuovi, forme di relazione complesse, difficili da gestire. Non ci sono principi chiari e ciò che è nuovo non mostra le sue leggi e le sue regole. Inoltre chiedersi “chi sono?”, non dà risposte. Non esistono “credo” tanto solidi da poterlo fare.

L’uomo di oggi è smarrito perché le conoscenze scientifiche e i modelli che si impongono socialmente non riconoscono la stabilità, la coerenza, il definito. Al contrario propongono la fluidità continua che è matrice d’incertezza. Se cerco di fermare il pensiero, il pensiero comunque se ne va, questo si sa, ma il fluire dell’esperienza è oggi fenomeno generalizzato, non riguarda soltanto il pensiero, permea ogni atto del nostro quotidiano.

Lo stato di impermanenza diventa più evidente che mai. Ma l’uomo del nostro tempo non ne ha familiarità. C’è il vuoto dentro, manca la fede. I divieti impliciti che si respirano nell’aria, frutto di un genitore impalpabile, invisibile e permeante, ma culturalmente supportato, sono del tipo: “non cercare appoggi”, al quale segue una convinzione: “nessuno è in grado di guidarti”. Infine manca struttura, paradossalmente manca un’immagine del divino, una forma reificata, che gli dia fisicità facendolo “cosa”.

Questo lo renderebbe equiparabile ai nostri sentiti comuni di protezione e guida. È forse quello che mancò al bambino? Un’esistenza con linee guida concrete? Il bambino ha difficoltà con l’astrazione. E come nelle culture arcaiche, per lui la divinità ha bisogno di forme.

Poi verranno le elaborazioni adulte. Abbiamo bisogno di qualcuno, qualcosa che intervenga su noi come fossimo “oggetti”. Se scompare la reificazione, nessuno, niente ci dà confini. Lo spazio di azione è troppo ampio e quello che sembra libertà, di fatto è una mancanza di limiti che produce incertezza. Non c’è contenimento manca il padre. Il patriarcato di oggi nasconde un’autorità invisibile. Niente, di “superiore” a cui appoggiarsi o contro cui lottare. Ci si può identificare col niente? E. Berne si interessò agli studi sull’LSD 25, fatti da Chandler e Hartman. Voleva sapere di più sulla mente arcaica e gli Stati dell’Io primordiali. Scoprì un mondo d’immagini e sensazioni, nulla di concreto. Altri ricercatori scoprirono l’anima, qualcosa che ricorda l’essenza della vita.

L’esperienza di chi racconta il “viaggio” è sempre connessa ad istanti che si riempiono di immagini e significati. Ma in sé non hanno esistenza concreta. Ogni attimo di esperienza diventa inafferrabile e segue il vuoto, il non essere, quello che non c’è. Così funziona la mente riportata a stadi primordiali, una condizione che produce terrore o è fonte di saggezza. Il terrore nasce dalla sensazione di perdersi nel nulla.

La saggezza si appoggia sul senso di presenza, di esserci, indefinibile in termini di concretezza, eppure sperimentabile, anche se difficile da descrivere. Lì si incontra pace profonda. Si dirimono i conflitti. Questo è anche il risultato di alcune forme di meditazione, conseguito con attenzione focalizzata e attitudine a non far niente, condizione simile a quella del continuo di consapevolezza, ma senza implicazioni cognitive. Non c’è nulla da capire. La consapevolezza è piena e non serve altro.

 

La società liquida

A volte mi piace dire che il paziente del nostro tempo “galleggia” sull’esperienza, come sul vuoto. Bauman[15] definisce il mondo in cui viviamo “liquido”, e la realtà quotidiana sempre più effimera ed incerta. Le situazioni in cui gli uomini vivono cambiano di continuo. Non c’è tempo perché si stabilizzino modi di essere e procedure, che permettano ai fenomeni di assumere forme definite e di mantenerle. Vige la precarietà, il provvisorio.

Domina il mito del fare, della modernizzazione, e quindi del cambiamento compulsivo, ad oltranza. Il mondo sembra dominato dalla “passione dell’agire”.

L’azione per l’azione. E l’uomo si dimentica di sé. Tanto attivismo non toglie però l’incertezza, che resta come sfondo e permea l’esperienza.

Quello della liquidità non è fenomeno generalizzato, appartiene alle parti ricche del pianeta, dove non c’è spazio per gli eroi, dice Bauman. Nella vita liquida scompaiono i grandi ideali e cambiano di continuo i costumi e i modi di vivere.

A quello degli eroi viene sostituito il culto delle persone celebri, attori, divi, campioni sportivi, miliardari, che hanno il merito di rispondere a clichè culturali e costumi del tempo. Ma anche questo dura poco. D’altro lato vi sono quelli che condividono il senso di appartenenza, ad uno stato, ad una comunità, e mantengono fermi i propri valori e le loro tradizioni.

Una polarità più rigida e poco flessibile che tende a mantenere lo status quo, nel quale si identifica. In ogni caso il fenomeno della liquidità è dilagante, diventa cultura diffusa e confligge con le tradizioni perduranti. Spesso i due aspetti convivono in una stessa collettività. Paradossalmente le nuove mode e la ricerca di status, coinvolgono maggiormente quelli che sono da poco arrivati a forme di benessere economico, e cercano affermazione sociale attraverso lo sfoggio di beni di consumo diventati simbolo.

L’abito firmato, l’automobile importante, l’orologio particolare e così via. Bauman propone soluzioni. Occorre incontrare l’altro “non come persona”, intesa come maschera che ricopre un ruolo. Occorre incontrare l’altro nella sua vera natura attraverso un atto morale, che consiste in un donarsi all’altro, ad un Tu.

È dall’atto individuale che nasce la società, dall’incontro con un Tu. Si ripropone quanto ho sottolineato in precedenza. La crisi sconvolge gli Ordini. Liquidità e fluidità possono costituire un limite per vivere pienamente l’esistenza, ma anche possono favorire la realizzazione di una maniera più saggia di stare al mondo. La crisi porta il nuovo.

 

Non cercare nulla

In una società che spinge a legarsi all’effimero e nello stesso tempo ci mostra che tutto cambia rapidamente, riceviamo messaggi contraddittori. Il mondo liquido è confuso. Se cavalchiamo la confusione si produce disagio e smarrimento. Ma se andiamo al senso delle cose, possiamo riconoscere che la vita stessa è a termine, che tutto finisce e che la durata della nostra esistenza è più breve di quello che pensiamo. Ingenuamente, tenendolo segreto anche a noi stessi, speriamo che quello che accade agli altri non accadrà a noi ma non è possibile e arriva il momento in cui, senza che ce ne rendiamo conto, il tempo incomincia a correre, molto rapidamente.

I maestri buddhisti parlano di impermanenza. Tutto ciò che esiste nel mondo delle cose concrete è destinato a finire. Così anche le nostre vite materiali. Esserne consapevoli permette di prepararsi piuttosto che essere improvvisamente posseduti dall’evento morte. Quando arriva con sorpresa non si sa cosa fare per affrontare il passaggio.

E la sofferenza è grande. Il fenomeno della liquidità può essere utilizzato per indirizzare i nostri pazienti verso comprensioni più profonde sull’impermanenza e gli evitamenti che mettiamo in atto per scappare dal nostro destino. Occorre però accompagnare l’atteggiamento realistico di guardare le cose per come sono, alla ricerca di valori che diano più senso alla vita.

In questo caso la precarietà può diventare una via di crescita piuttosto che produrre disperazione, per la quale non ci si dà ragione e che viene sostituita con l’attaccamento all’effimero. Apprendendo la pratica del distacco dalla compulsività dei bisogni, si apre spazio per altre forme di nutrimento. La Gestalt è la terapia che cerca la persona al di là delle maschere e dei ruoli, nella sua naturalezza.

Che l’uomo accetti di essere così come è. F. Perls volle la spontaneità e trasparenza. Ma sostanzialmente volle verità. Considerò l’essere “vero” un fattore di cambiamento. Il suo mito fu nel motto: “Sono come sono”. Poche parole ma con tante implicazioni. La terapia gestaltica non sostiene i veli, li lascia cadere. Questo modo di essere, vero con sé e vero con gli altri, elimina direttamente le introiezioni. Il discorso di Perls non è distante dalle idee di Husserl sulla ricerca dell’essenza attraverso il guardare “ciò che è”.

L’invito di Perls e di Naranjo poi, è di entrare nella relazione senza cercare nulla, sperimentare l’incontro al di là dei pregiudizi. La meditazione in coppia, fatta l’uno di fronte all’altro, permette di scoprire profondamente chi ci è di fronte. Guardare con occhio ingenuo e permettere che le esperienze emergano.

Non cercare nulla. In questo Io-Tu profondo si crea relazione, e in maniera più diffusa, tessuto sociale che accomuna, quando il processo terapeutico è esteso ai grandi gruppi, secondo la metodologia elaborata da Naranjo.

 

Il sogno di una paziente

Dicevo che oggi le problematiche psichiche appaiono differenti da quelle dei precedenti venti, trent’anni. Sembra che il vuoto esistenziale sia diventato un substrato del carattere del nostro tempo in cui dominano paura e angoscia. “Sono aumentati i pazienti paranoici”, mi ha detto un amico psichiatra che lavora in strutture pubbliche. Ho anche accennato a come si organizzano gli adattamenti e alla stabilità che essi assumono per coprire la propria natura intima, e di conseguenza gli aspetti legati al mondo sottile della spiritualità.

In altre occasioni, ho parlato di psicologia degli Enneatipi[16] e delle forme caratteriali che assumono gli esseri umani. Una di esse si è particolarmente diffusa negli ultimi anni. Il carattere dominato da una passione per la “vanità” e da una modalità di mascherarsi attraverso forme di “autoinganno”.

In pratica si racconta bugie, mostra aspetti di sé che sono costruiti ad arte, si convince che lui o lei è proprio così. Sono aspetti che ogni tipologia caratteriale porta in sé, fa parte del processo d’identificazione nelle maschere, come l’attore con il personaggio. Salvo che l’attore non perde la consapevolezza della finzione, mentre chi manifesta un carattere crede davvero di essere quello che mostra.

Nel sogno di una giovane donna appare una lavatrice. Le chiedo di identificarsi in essa: dentro è nera, fuori è bianca. “Lo spazio interno non si riempie mai”, mi dice. E poi aggiunge: “se fuori non sono come gli altri, mi sento inadeguata”. “Diventa il dentro”, le dico: “Sono lo spazio nella lavatrice, senza confini, buio, e questo spazio mi inquieta”. Si distrae e perde l’identificazione.

Ora ha paura. “Torna ad essere lo spazio”, “Mi dispiace spaventarti, perché non faccio del male”, sussurra parlando a se stessa. “Se lì dentro ci fosse luce si scoprirebbero tante cose belle”. “Metti luce”, le suggerisco “che illumina tutto”. Piange. “Che succede?”. Non lo so… so che ci sono cose ma non le vedo”.

E poi continua: “Le cose non sono oggetti ma la loro origine, gli spiriti, non si materializzano. Non si possono vedere con la semplice luce”. “E se le vedessi?” chiedo. “Sarebbero fili di fumo intoccabili”. “Ora non ho più paura”.

Si tranquillizza. “Identificati nei fumi”. “Sono i fili di fumo, una cosa libera, una sostanza leggera che non deve prendere una forma per esistere, va bene come è. Vive libera… sono i  fili di fumo, le energie”. “Non si curano di ciò che li circonda”, commenta. “E se gli altri potessero vederli?”.Non cambierebbe nulla”. “Perché?”. “Loro non possono essere distrutti, sono le cose che ci sono… ci sono sempre”. “Cosa provi?”. “Mi sento bene tra i fumi”. “Qual è il vantaggio di essere fumi?”. “Non avere forma, essere invisibile per non corrispondere a quanto vuole l’ambiente”.

In pratica per non fare ciò che vogliono gli altri. Essere invisibile le permette di non conformarsi a quello che lei pensa siano le richieste altrui.

E qual è lo svantaggio?”. “Che chi non sa accendere la luce non mi vede e può spaventarsi”. “Cosa provi adesso?”. “Sto bene, non avrei mai pensato di raccontarmi così”. Diventa consapevole e questo già le da sostegno. “Cosa stai capendo?”. “Mi sta sempre più stretto questo modo di dover sempre corrispondere a qualcosa o qualcuno”. Ma non può farne a meno, per lei è vitale. “Se togli il corrispondere cosa rimane?”. Esita un po’… “Cosa rimane?” dice… e infine “non lo so… tutto è dentro di me… i valori, le conoscenze, i sentimenti… tutto incorporato per uno scopo… per corrispondere, ottenere”. “E questo che significa per te?”. “Che non so chi sono, in realtà… senza tutte queste cose messe dentro in modo artificioso. Tolte le conoscenze per lavorare, i valori per rispettare, eccetera, chi sono io, cosa mi rimane di veramente mio… quello che serve solo a me? La prima cosa che mi viene in mente è: l’amore per il mio cane e in secondo luogo per mio marito. Se tolgo il corrispondere tolgo tutto, solo questo mi resta”.

Piange sconvolta per quello che lei stessa dice. “Non hai riferimenti tuoi, a parte questi amori, hai solo caratteristiche che servono per ‘corrispondere’, per agire come l’altro si aspetta”. Si identifica in quello che gli altri vogliono che lei sia, non segue il suo bisogno, il suo sentire, ma quello che gli altri si aspettano. Lo fa senza consapevolezza.

Ripete meccanicamente un copione sempre uguale a se stesso, e compiacendo si guadagna il suo diritto ad esserci. Così il mondo la può accogliere e lei può esserne parte. Ovviamente, alla base del suo adattamento c’è una profonda svalutazione del proprio valore. Si trasforma in un “oggetto” che viene apprezzato per come si mostra e per cosa fa. Perde individualità si confonde nella massa e rinuncia a proprie forme di esistere.

Strano… ho la sensazione di averle sempre sapute queste cose”. E poi continua dicendo che ha paura di guardarsi dentro perché non sa cosa c’è “dentro”. Si ferma alla forma. Bella, bei colori, ma fredda. “Non voglio che mi vedano erotica, sensuale, perché in questo caso dovrei corrispondere”. Si identifica in quello che le chiedono e fa quello che l’altro vuole, quindi, per evitarlo, nega pezzi di sé. Sembra non avere possibilità di scelta. Recita la “passione” e simula gli orgasmi per far contento il marito. “Questo vuol dire che non ci sei tu nella relazione, metti un ruolo”, le dico. Mi risponde come se non ci fosse altra alternativa: “Se non corrispondo che ci metto? Io non se che mettere… non lo so… e quindi qui mi blocco”.

Recita quello che l’altro si aspetta per non perdersi nel vuoto.

Il vuoto senza emozioni e senza contenuto è il fondo sul quale si organizza la personalità di questa paziente che rifiuta di entrare nella propria interiorità. Frappone uno spazio nel quale non sperimenta nulla, lo vive come mancanza d’essere. È il prezzo che paga per non sentire il dolore forse, o la rabbia. Sarebbe troppo, chissà quali ritorsioni riceverebbe.

Il vissuto di non essere stata “vista”, da bambina, la costringe oggi a cercare visibilità, costi quel che costi: non sopporterebbe di scomparire dinanzi al mondo. Di fatto per quanto si spenda, ancora non ci riesce, perlomeno come vorrebbe lei. La via che ha scelto per acquisire un diritto ad esistere è quella di compiacere e di “conformarsi” alle richieste. Ma di fatto non l’aiuta, anzi le conferma il copione. Replica internamente i dialoghi di sempre e continua a non guardare in profondità, dentro il vuoto.

È lì che si nascondono le emozioni e i sentimenti della bambina e restano represse le pulsioni, alle quali è ancora troppo pericoloso dare spazio. Così immagina.

Il vuoto nel suo caso non produce neanche angoscia, è come un diaframma posto a copertura di un’autenticità pericolosa e di tanta disperazione. Ma è proprio lì che le tocca arrivare.

L’autenticità è la via per far cadere le maschere, in particolare per questo carattere, ma il discorso vale per tutti. Il vuoto senza colore e senza sapore fa di lei un personaggio di plastica.

Quello stesso vuoto può diventare una cura, ma bisogna trasformarlo in uno stato meditativo che toglie drammaticità all’esperienza emozionale negativa. Gli oggetti di attenzione della coscienza sorgono e si dissolvono, quando la mente è rilassata e in uno stato di presenza vigile, in un qui e ora messo nell’istante.

La mente riportata alla sua natura non trattiene il fenomeno e attimo dopo attimo apre a nuove esperienze che poi da sole si estinguono.

Conoscere se stesso comprende la scoperta di come siamo negli stati più autentici e il fine terapeutico è quello di ridurre la sofferenza. Aiuta molto abbandonarsi al processo, e seguirlo così come viene. Al contrario di solito tendiamo a fissare le esperienze trattenendole.

Per farlo serve un atto di volontà, mentre se lasciate a se stesse, spontaneamente si estinguono. In termini gestaltici è cosi che funziona l’indifferenza creativa. Ciò che si crea si struttura e poi finisce, destrutturandosi.

D’altro lato, l’autenticità, come esercizio terapeutico, mette in contatto “il come si è”, avvicina all’essenza, ai livelli più sottili, non attaccabili dalla passionalità. Nel caso della paziente la passione, definibile come una forma emozionale esagerata, consiste in un desiderio di apparire e di essere accettata per la bella forma che propone di sé. Alla fine, inganna se stessa e si perde nell’immagine.

 

Un genitore auto-generato

Si dice, anche nel mondo della psicoterapia della Gestalt, che nella nostra epoca non c’è più un Super-Io e che  questa assenza determina nuove forme di patologia. Certo, il Super-Io, non ha più le stesse caratteristiche che gli attribuiva Freud. Già con Berne, l’istanza concettuale della tradizione psicoanalitica assumeva maggiore realismo e veniva identificata con caratteristiche che corrispondevano alla normatività negativa di genitori effettivi.

Nel nostro tempo sono molto meno presenti le repressioni tradizionali, i divieti e gli imperativi, che tendevano a inibire comportamenti culturalmente rifiutati. E tuttavia, una gran quantità di persone si sente schiacciata dal peso di ingiunzioni, ordini e modelli, che incapacitano e tolgono forza reattiva. Nonostante le possibilità di soddisfare bisogni siano moltiplicate, è molto forte il senso di mancanza, ed è comunque difficile appagare desideri e necessità primarie. C’è ancora ignoranza emozionale. Alcuni stati emotivi restano poco praticati o addirittura sconosciuti. Socialmente sono tabù.

Metterebbero troppo a nudo le persone. Anche la fisicità e in particolare il sesso, pur essendo caduti tanti divieti, non sono così liberamente vissuti come si potrebbe credere. Sono molti i no, anche se le loro origini hanno matrici diverse da quelle dei decenni precedenti. Il Super-Io, pur agendo ancora la sua funzione “castrante” su impulsi e desideri, e pur conservando una funzione repressiva sulla spontaneità naturale, sembra aver cambiato i modi per strutturarsi.

Continua a mantenere il ruolo di polarità alle istanze libere e creative, che sono alla base della vitalità e della gioia del bambino naturale. Questo non è strano, se ricordiamo il discorso di Friedlaender e dello stesso Perls, ancora più chiaramente definito dalla visione buddhista della realtà. La dinamica della nostra esistenza si nutre di dualismo, e i buchi, le carenze, tendono ad essere riempiti.

Il Super-Io, non si forma solo per aggregazione di esperienze che provengono direttamente dall’esterno, cioè da genitori biologici o culturali che danno divieti, ma soprattutto per effetto di un processo interno, di un filtro che trasforma le carenze, la mancanza di direttività, le assenze genitoriali, creando strutture ancora più potenti di un “semplice” Super-Io. Sono organizzazioni auto generate che hanno funzione protettiva e si sostituiscono ai genitori insufficienti.

Provengono da un bambino senza riferimenti chiari, che si sente a rischio e lasciato a se stesso. Costretto a cercare in sé la guida che gli manca, si organizza per farcela da solo, costruendo proprie direttive per muoversi nel mondo. Crea lui stesso un genitore sostituto di padri e madri che non lo sono a sufficienza, presi dalle loro vite, dai problemi personali, da desideri e bisogni spesso ancora infantili, ed essi stessi poco strutturati, pieni di paure e incapaci di dare regole alle quali tra l’altro non credono. Altre volte lo fanno per non essere severi. Temono di perdere l’affetto del figlio. Ma soprattutto perché si sentono smarriti in un mondo e in una realtà che sfugge alla loro comprensione. Infine preferiscono astenersi piuttosto che prendersi una responsabilità genitoriale. Si propongono come amici, “chiamami per nome”, non papà, non mamma.

Ma il bambino vuole genitori, ne ha bisogno, gli servono limiti, confini chiari, e si arrabbia se non ne ha. Soprattutto si sente perso, e se ne inventa uno. Se lo fa da sé, con i modi che corrispondono alla realtà come lui la legge, magari popolata di mostri e di streghe, e certamente di paure, dubbi, incertezze, ma anche di tanta rabbia e dolore. Vuole un genitore che possa gestirlo e dargli regole. Ma è un genitore che viene dalla sua mente, auto generato, che va a colmare la carenza. Si esprime con forza irrazionale, più potente di un Super-Io e tende a generalizzare. È ovvio, è un finto Genitore, è un bambino. Riempie un vuoto e lo fa senza aver maturato delle competenze. Si difende con l’aggressività, può essere molto violento. Si muove male nel mondo e tende a paralizzare i comportamenti e a fermarsi nel dubbio, nell’incertezza.

In fondo ha paura: meglio astenersi che agire. Quando perde il controllo, lo fa in maniera eclatante. Ma in generale è l’immobilismo che lo governa. “Galleggia” nella vita. È “liquido”: un genitore inventato.

In una fantasia guidata C. si incontra con una bolla bianca che si muove nello spazio e la minaccia. È avvolgente. “Mi voglio difendere ma non so come. Aiutami tu”, rivolta a me. Sente reale il pericolo che le viene da questa forma e la paura le toglie la parola. Invitata a scoprire come si paralizza nella vita, ha immaginato un essere che non ha identità e la attacca. Tenta di invaderla e di impossessarsene. È un nemico senza volto, senza specifiche intenzioni. E lei resta immobile, inespressiva, “faccia di gomma” le dico, ma resta indifferente ad ogni provocazione. E poi: “Mi voglio difendere…” dice, “bene, fallo”. È immobile inespressiva, e poi di nuovo: “aiutami tu”. Lo dice senza energia. Anch’io non reagisco, resto in silenzio. E lei mantiene sempre la stessa postura, in piedi, con il camicione bianco che cade sui pantaloni. Mi fa pensare ad un clown appena struccato, che lasciato il personaggio non sa più come muoversi.

Passa del tempo in totale silenzio. Sembra persa ed è ancora inespressiva. Le chiedo della forma bianca. Non se ne è andata. È sempre lì, le oscilla intorno. “Già, ti controlla… così ti ha succhiato la vita”, le dico. Sei terrorizzata e non c’è nessun nemico. “Che facciamo? Alla fine vince sempre lei… la bolla bianca… è cosi?… faccia di gomma?”. Ha un leggero movimento nel corpo, ma niente di più. Dopo un po’ aggiunge: “Si può fare qualcosa?”. Ancora chiede a me. Non trova risorse in se stessa e se ne sta completamente inerte. “Sei fregata…”. Con più energia mi risponde: “Voglio venire fuori da una situazione che non esiste”. Lo dice, ma è solo un’idea alla quale non corrisponde nessuna azione concreta.

E poi insiste nel chiedermi una soluzione: “Voglio una psicomagia”, ed io le rispondo: “È inutile, non cambierai”. E poi: “Ti offro l’ultima chance”. “Distruggi questa forma e vedi chi c’è dietro. Lo farai da sola, ci sei tu e questa forma, nessuno muoverà un dito per te”. Voglio spingerla ad una reazione. Ma resta ferma. “Fallo”, la esorto “Ho paura”. “Noi”, io e il gruppo nel quale sto lavorando, intendo dirle, “non faremo niente”. Esco fuori dalla stanza. È ancora un invito a trovare in lei le risorse, da sola, senza alcun appoggio. Come avveniva da bambina, ma questa volta per ribellarsi e uscire dall’iperadattamento che l’aveva ridotta a tanta passività. Dopo un po’ la sento urlare: “Vattene… vattene”. Strofina le mani sul corpo, con forza, sembra volersi strappare di dosso qualcosa, come togliersi la pelle. “Sono stanca… vattene… vattene”. “Cosa fai?”. “Cerco di togliermi questa cosa che mi avviluppa il corpo e non ci riesco… non se ne va”. “Non ci riesci?”, commento. “No… è attaccata… non se ne va”. “Che cos’è?”. “Una guaina… mi avvolge tutta… una guaina impermeabile”. Ora è più coinvolta, quasi piange, si rende conto della propria impotenza. “Voglio vivere… voglio vivere…”, ma lo dice senza convinzione. “Non è vero, non ti credo” le dico di rimando. “Ti rendi conto che la bolla è ancora lì? La stai proteggendo… ancora una volta stai salvando il tuo nemico”. Di fatto non ha lottato contro l’immagine che la minaccia, e non è comparso niente, nessuno, quando l’ho invitata a vedere cosa si nascondesse dietro quella forma bianca.

Ha paura e non osa neanche pensare che la “bolla” possa nascondere qualcosa. La sua è una paura senza oggetto. Si stacca di dosso quello che sembrerebbe una pelle, che rimanda a un contatto primario di tipo fusionale. Forse è qualcosa di molto profondo che viene dalla relazione con la madre.

Ha dato, attraverso un’elaborazione interna, valore simbolico all’esperienza di bambina che ha tradotto in una relazione con un organismo lattiginoso, bianco, trasparente. Un genitore indefinito, che non si rivela, eppure la minaccia e la paralizza. Della sue storia effettiva, so che la madre l’ha molto trascurata, e che lei fin da piccola se ne è generosamente presa cura, aiutandola e anche proteggendola, pur di starle vicino. La scarsa genitorizzazione paradossalmente la tiene ancora legata.

Oggi le serve più amore per se stessa, e che si prenda cura della propria bambina interiore. È passata all’amore altruistico occupandosi di varie persone, anche scegliendo una professione d’aiuto, senza aver prima riempito i suoi “buchi”. Oggi ha bisogno d’amore ed è incapace di prenderne. È necessario che innanzi tutto si risvegli dal suo torpore e metta l’energia, che peraltro è tanta, al servizio della crescita. È desensibilizzata, chiusa nel suo mondo, le manca la fede in una possibilità di rinnovamento. È importante ritornare a sé e risvegliare i suoi potenziali. La terapia dovrà favorire l’attivazione di un genitore interno.

Ha dimenticato se stessa a favore di tanti “bisognosi” ai quali si è dedicata, convinta che non ci fosse uno spazio per lei. Aiutando gli altri si distrae da sé e così riesce a tollerare i suoi vuoti affettivi. È il trucco della proflessione, il meccanismo difensivo attraverso il quale inconsciamente si dice: “dò ad un altro ciò che servirebbe a me”. Le tendenze fusionali e la paura di separarsi, vissuta come perdita irreparabile, sono tipiche di personalità caratterizzate da inerzia psichica, una pigrizia interiore che le porta a dimenticarsi di sé e dei propri bisogni. Si appiccicano ad altri e si offrono “generosamente”, credendo che in questo modo acquistino la possibilità e il diritto di vivere.

Un’altra paziente della stessa tipologia, evidenzia un ulteriore aspetto che appartiene sempre a questo tipo di carattere, ma abitualmente non viene manifestato: la rabbia. Durante una seduta di gruppo, mentre parlava di sua madre, P. ha improvvisamente pestato un piede a terra. Sorpreso dal gesto così repentino le chiesi la motivazione di quell’atto e lei rispose che l’aveva fatto per schiacciare un ragno. L’insetto, che tesse la tela, le ricorda la madre che con la sua “tela” la avvolge completamente e la intrappola. Una madre “mostro” che la paziente potrebbe anche eliminare, come estrema reazione di difesa. La fusione sembra senza via d’uscita. Entrambe si attaccano l’una all’altra. Però la paziente sente il diritto di farlo, e respinge la madre che ugualmente lo fa. Simbolicamente la ammazza, uccidendo un ragno come risposta di paura alla fantasia di essere imprigionata da una “rete” fatta di attenzioni invasive, frammista a rifiuti reclamanti. L’autonomia è difficile da conseguire. Anche quando fisicamente lontana, questa donna, già avanti negli anni, si sente persa e ha bisogno di rifugiarsi dalla madre, nonostante i conflitti. Non ha il permesso di crescere e tuttavia, fin da piccola, si è comportata da adulta, prendendosi cura dei grandi. È mancato l’accudimento e oggi è difficile riparare.

 

L’amore altruistico

La psicoterapia della Gestalt fin dalle origini ha guardato all’uomo non soltanto per le sue sofferenze immediate e per i suoi sintomi. La clinica gestaltica, così come io la intendo, agisce soprattutto sui potenziali che sono patrimonio del paziente e lavora per far riscoprire la sua naturalezza, la spontaneità dell’essere, che si nasconde dietro i sistemi difensivi.

Il vuoto può essere vissuto come un angosciante nulla, una non esistenza o come la matrice della vita. Fritz Perls, cerca vie inedite per la psicoterapia e precede di molto gli sviluppi successivi della conoscenza, e non solo quella psicologica, offrendo strumenti operativi. Come visto in precedenza cambia le visioni del suo tempo e mette alla base della crescita e dello sviluppo proprio il vuoto. Un vuoto fertile, creativo, il punto zero. Parla di un Ego invisibile e come tale senza forma.

È un potenziale creativo. Dal vuoto nasce ogni cosa. Naranjo propone un modello di crescita personale che ha tra i suoi elementi portanti la pratica meditativa, ispirata a più scuole della tradizione buddhista. La affianca all’esplorazione delle strutture che danno vita alle tipologie umane, e all’impiego di antitesi, che pure vengono dalla tradizione. Sono comportamenti “virtuosi” utili a trasformare i caratteri in forme di essere più congruenti alle necessità reali, di chi intraprende un percorso di conoscenza. Il ritorno al vuoto insieme all’atteggiamento “del non fare”, è un potente antidoto per destrutturare l’Ego, inteso in questo caso come organizzazione rigida e costante della personalità.

L’uomo è pieno di introietti, di formule date, di modelli, e anche di elaborazioni interne, spesso frutto di ignoranza, e ha perso il contatto con la naturalezza della sua interiorità. Azzerare, portare al vuoto, vuol dire far emergere il nuovo, dare spazio alle potenzialità creative che sono all’origine dell’esperienza. Non è dal vuoto che nasce l’intero universo? Oggi lo sappiamo. Morin ci ricorda la stretta interazione dell’uomo con il tutto: “Portiamo dentro di noi il mistero del cosmo e in ognuno di noi ci sono scintille di stelle”. Non abbiamo da cercare chissà dove, l’essere umano porta in sé gli stessi principi che danno vita all’intero universo e quindi nell’uomo stesso troviamo le soluzioni.

Profondamente, al di là dei nostri specifici adattamenti individuali, come esseri umani, tutti condividiamo la stessa natura, la stessa essenza. Quando lo si comprende, non solo con la logica, ma profondamente, è più facile che si sviluppi l’amore per l’altro, l’amore altruistico, o quella che nel mondo buddhista viene chiamata “compassione”. Quando cresce la compassione, le relazioni diventano più fluide e quindi più vere. Perls, nella sua rivisitazione di Freud, mette in primo piano il livello orale, la masticazione.

È importante per l’assimilazione del cibo, e metaforicamente per digerire e fare proprie le esperienze. Ma anche perché permette i primi contatti con l’altro. Attraverso la suzione si facilita la vicinanza alla madre e al suo calore, permette il bacio e l’intimità. Attraverso la bocca si comunica con la parola, e nel contatto fisico, si scambia amore. Tuttavia, per tante ragioni, piuttosto che sull’amore che riceviamo, ci focalizziamo sulla sua carenza e per questo si soffre. Di amore ne desideriamo sempre di più e per il fatto che manca sentiamo invidia, sentimento distruttivo.

L’invidioso ha lo sguardo puntato su chi ha di più, e si tormenta. Perché a lui sì e a me no? Così cade in una spirale senza fine. Vuole spiegarselo e arriva a conclusioni ragionate ma irrazionali. “Non ricevo amore perché non valgo, non lo merito…”, e la sofferenza cresce. Si svaluta e allo stesso tempo alimenta il rifiuto, fino all’odio, per chi ha di più. La vita di chi si fissa nell’invidia può diventare un inferno, e si muove intorno ad un circolo vizioso dal quale è difficile venir fuori. Il desiderio di amore è andato sullo sfondo e ha lasciato il posto a sentimenti negativi. L’invidioso ha bisogno di equilibrio. È necessario che apprenda ad accontentarsi con quanto già sta ricevendo e neanche vede, preso com’è dalla sua sofferenza, stato emozionale al quale si è precocemente legato e che continua a condizionare il suo comportamento.

Un maggiore equilibrio lo riporterebbe alla realtà, gli permetterebbe di guardare a ciò che effettivamente gli accade oggi e a quali sono le sue risorse, senza aspettare l’altro che gli dia. Soprattutto può imparare lui stesso ad amare. È paradossale, amando di più ci si sente più amati. Perls e poi Naranjo hanno dato molto rilievo alla concezione dell’Io-Tu. Seguendo le proposte di Buber, Naranjo, in particolare, ha elaborato specifici esercizi per la pratica in contesti di gruppo. Anni fa ad un congresso sentii dire da una anziana signora, gestaltista, della quale non ricordo il nome, che la concezione dell’Io-Tu, non può entrare in una psicoterapia non avendo dignità teorica! Al contrario, per Buber fu la base per stabilire relazioni autentiche. E non è questo che cerchiamo in psicoterapia della Gestalt? Naranjo provoca l’apertura alla comunicazione sottile e mira a favorire lo sviluppo di un filo amoroso tra le persone in relazione. Nel contatto pieno che in questo caso nasce dall’incontro a due, c’è profonda intimità, e quindi amore. Ma perché l’amore trovi più facilmente spazio nella quotidianità, suggerisco più realismo.

Come esseri umani siamo limitati. Di amore ce n’è poco, è necessario accontentarsi. Paradossalmente, quando si impara a sentire la gratitudine per quanto si riceve, è più facile sentire l’amore e quello che sembrava poco, può diventare molto. Da giovani l’amore non basta mai, ma crescendo si apprende ad accettare il limite e questo produce saggezza. È anche utile chiedersi: “Sono forse così capace di dare io tanto amore quanto ne pretendo dall’altro?”. È la mente che dà la misura del grande e del piccolo, e la mente umana è condizionata. Tuttavia, la mente naturale, quella autentica, non fa valutazioni è piuttosto come uno specchio, che imperturbabile e in piena pace non è condizionato dai riflessi, qualsiasi essi siano[17]. La mente riflette tutto ciò che esiste al di là di quello che sperimenta. Il riflesso passa, la mente, nella sua natura, resta. Come l’uomo.

7.1. La complessità

In linea con l’astrofisica, Thich Nact Hahn[18], maestro buddhista, parla di inter-essere. Dice: tutto è interconnesso. Un poeta guardando questa pagina si accorge subito che c’è dentro una nuvola “senza nuvola non c’è pioggia e senza pioggia non crescono alberi e senza alberi non possiamo fare la carta”. Non è fantastico? Io sono anche nuvola e anche albero e tutti siamo parte di questo cosmo. Quindi tutto quanto mi circonda è anche parte di me, posso riconoscerlo. Siamo ciascuno tutti. Separati, divisi e profondamente “uno”.

Nel buddhismo si dice: ogni essere che vive, un tempo è stato nostra madre. E questo pensiero alimenta la compassione, l’amore per l’altro che da altro diventa Tu. Viviamo coinvolti nella complessità. L’esistenza si realizza nella complessità e attraverso innumerevoli interrelazioni. Morin se ne occupa. La complessità coinvolge la cultura e i popoli. La stessa educazione non può rispondere con le sue forme tradizionali alle esigenze del nostro tempo.

Ci vuole una “nuova testa[19] per comprendere la miriade di fenomeni che si intrecciano tra loro, senza isolarli l’uno dall’altro, né separarsene. La nuova testa si va formando per autoregolazione nei giovanissimi, i quali sono certamente più pronti a rispondere a quanto propone il mondo odierno. I modelli educativi, al contrario, non sono adeguati. La scuola non è preparata. La cultura delle generazioni precedenti è ancorata ad altro e quando lo stesso Morin, in Francia, ricevette l’incarico di riformare il mondo dell’educazione, dopo un tempo fu costretto a dimettersi.

Non gli permettevano di lavorare nella direzione che aveva proposto. Il pensiero occidentale è organizzato secondo principi per i quali la causa è separata dall’effetto. Ma causa ed effetto costituiscono una circolarità nella quale l’una produce l’altra e dall’altra è prodotta. Credo, tornando alla psicoterapia della Gestalt, al grande valore dell’esperienza Io-Tu, e non mi riferisco soltanto agli esperimenti terapeutici, ma soprattutto alla diffusione di una cultura delle relazioni fondate sullo scambio degli affetti, mettendo in gioco le emozioni. L’educazione all’affettività ha valore trasformativo e quando siamo alla pari in un’interazione autentica, l’amore circola e non si può stabilire da dove parte e dove arriva, circola. Per un’educazione differente non bastano teorie, chiacchiere. Non è roba da “politichese”. Per la scuola servono programmi concreti, nei quali siano inclusi diversi modi di insegnare, in risposta alla complessità dei nostri tempi, ma anche un’educazione all’affettività, allo sviluppo delle capacità amorose e dell’autenticità.

Occorrono stimoli per la conoscenza della propria natura di essere umano e dei propri potenziali, che non sono soltanto intellettuali, ma anche emotivi. Più profondamente, occorre prestare attenzione anche agli istinti, per niente considerati nella nostra cultura[20]. Molte paure cadono quando si apprende e si sperimenta che nel vuoto non c’è soltanto angoscia, nichilismo, ma la ricchezza della propria essenza, della propria natura che ci mette nella relazione con il tutto.

In psicoterapia della Gestalt guardiamo l’uomo nella sua interezza e diamo attenzione ai molteplici elementi che lo costituiscono e che sono tra loro in relazione. Consideriamo anche che quanto costituisce l’interno ha un interscambio continuo con l’esterno. Come terapeuti siamo esperti di relazioni e come gestaltisti abbiamo implicita l’attenzione alla complessità e all’interazione tra le parti. Ciò che dice il paziente, anche una sola frase, ha le sue scie in differenti direzioni, così come un gesto o un’espressione del volto, non sono atti unitari, ma rientrano in un insieme. Quando lavoro con il sogno, e non solo, guardo alla molteplicità delle parti, ciascuna di esse porta consapevolezze. Allo stesso tempo do attenzione al messaggio globale che invia il sogno, che nel suo insieme, come ricorda C. Naranjo, si riassume in un messaggio esistenziale.