Il setting: esperienza ‘vivente’ di un incontro terapeutico

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Il setting: esperienza ‘vivente’ di un incontro terapeutico

“Ispirandoci alla tradizione psicoanalitica possiamo parafrasare il concetto di setting definendolo come il complesso dei fenomeni, piuttosto che delle regole, che si verificano durante la relazione e favoriscono gli obiettivi del processo terapeutico.”

 

Il concetto di setting ha molte implicazioni ma oggi ne voglio parlare mettendo l’enfasi soprattutto su alcuni aspetti che in questo periodo ti chiamano in maniera particolare il mio interesse. Pensando a cosa ci fosse di peculiare nel mio modo di fare terapia mi è venuta l’immagine del posto dove lavoro, il mio studio.

Da anni conservo le pareti interamente bianche, senza un quadro, senza una stampa e neanche i miei titoli professionali sono esposti. Più volte mi sono ripromesso di cambiare arredamento, di mettere un po’ di colore e qualche stimolo in più per chi si presenta ad un primo colloquio.

Di fatto ho sempre rinviato. A volte si sono verificate situazioni simpatiche, a volte imbarazzanti.

Qualcuno mi chiede: “Perché questo ambiente è così asettico?

E perché lei non ha diplomi esposti? Come faccio a sapere chi è lei? E come mi posso fidare?”

Se vuole conoscermi basta che mi guardi, senta la mia voce, osservi i miei gesti, come muovo la mano e saprà subito chi sono. La neutralità che si riflette nell’ambiente in realtà è soltanto apparente. Sto nella relazione. Al di là del ruolo, tra noi intercorrono comunicazioni che non possono prescindere dal “Chi sono io”. A volte diventa una sfida che accolgo: “Se vuoi conoscermi guardami, osservami, non hai bisogno di rassicurarti con i titoli professionali.”

Altre volte le persone non reagiscono al primo impatto e solo dopo un certo tempo emergono le loro prime impressioni. In altri casi mi confrontano con una provocazione: “Come puoi capire quello che sto vivendo se non sei neanche sposato?” – “ sono sposato e ho due bambini.”. “ E come mai non porti la fede?” “ Non la sopporto, non sono un uomo di fede, io” dico scherzando.

In alcune occasioni invece non rispondo e alle domande troppo incalzanti e agisco sottolineando che non rientrano i miei compiti di terapeuta raccontarmi al paziente e che decido io se e quando farlo.

Sin dai primi incontri sto costruendo il mio setting. Incomincia una relazione nella quale per alcuni mesi, o per alcuni anni, scriverò una storia insieme ad un’altra persona. In certi momenti saranno prevalenti le comunicazioni transferali, in altri prevarrà l’empatia e in altre ancora sentirò sincera simpatia o rifiuto indignato, al di là delle reciproche proiezioni.

Sostanzialmente sono in relazione un “io” e un “tu” coinvolti in molteplici e differenziate interazioni, alcune delle quali hanno poco a che fare con la patologia e sono frutto di “salute mentale”. La storia di questo incontro sarà la storia della terapia e ne determinerà il risultato.

Riferendosi alla tradizione psicoanalitica, Il setting viene definito dal Di Chiara come l’aspetto relazionale che l’analista deve tenere per la durata del trattamento, ed è funzionale a consentire l’esperienza psicoanalitica, cioè: stabilire contatto con l’inconscio, con la storia personale, i conflitti, il transfert. È caratterizzato da procedure del tutto inusitate rispetto alle comuni relazioni umane perché è connotato da specularità, neutralità, distanza e astinenza. In realtà Freud fu sempre indeciso tra una neutralità asettica e rigorosa, da chirurgo, e un atteggiamento umanamente più partecipe.

In tutta la storia della psicoanalisi ci sono state posizioni contrastanti tra quanti hanno scelto modelli rigidi e quanti invece, deviando, hanno proposto relazioni più aperte al coinvolgimento personale.

Ispirandosi alla tradizione psicoanalitica possiamo parafrasare il concetto di setting definendolo come il complesso dei fenomeni, piuttosto che delle regole, che si verificano durante la relazione e favoriscono gli obiettivi del processo terapeutico.

Quando parliamo di setting prima di tutto dobbiamo riferirci in termini generali ad una scuola o ad una tradizione, nonché alla concezione dell’uomo che vi è dietro. Poi, in particolare, alla persona che effettivamente sta operando e alla specifica situazione nella quale lo fa.

La terapia analitico transazionale è basata su tre principi fondamentali che suggeriscono l’orientamento per l’organizzazione del setting e per l’individuazione delle linee guida che ispirano l’attività dell’analista. Quest’ultimo si forma secondo una cultura terapeutica che oltre a teorie, metodologie e prassi mette alla sua base la filosofia dell’okness, della contrattualità e della ridecisionalità, principi propri e specifici dell’analisi transazionale.

Voglio precisare che, a mio parere, la pari potenzialità e il fatto che il paziente vada considerato, per quanto malato sia, come degno appartenente alla razza umana, così come proponeva Berne, implica che questa posizione e concezione di vita il paziente se la debba assumere attraverso la terapia e che diventi principio fondante del suo vivere quotidiano.

Quindi la visione filosofica del terapeuta si trasforma in contenuto esistenziale per lui stesso e per il paziente. Inoltre, quando quest’ultimo prende contrattualmente responsabilità per il suo processo terapeutico, riconosce la propria capacità di risposta, cioè diventa consapevole che sta reagendo in modo attivo o passivo agli stimoli ambientali, e che lo fa in maniera volontaria e non casuale. Ne consegue che può operare scelte e decidere quali comportamenti assumere. Le idee e i pensieri che costruiscono e sostengono il suo tipo di personalità, associati a coerenti modelli emozionali, sono il risultato di specifiche scelte.

Ogni approccio terapeutico ha i suoi riferimenti per ritenere raggiunto lo scopo della terapia. Ad esempio, uno dei parametri per verificare se il processo psicoanalitico procede in maniera positiva è il raggiungimento della capacità di sostenere, per un tempo ragionevole, la libera associazione in maniera fluida. Noi potremmo assumere, per linee generali, che una terapia non sintomatica ma rivolta alla ristrutturazione della personalità, ha la sua fine ideale quando vengono raggiunti gli obiettivi dell’okness, della competenza contrattuale e un’attiva capacità ridecisionale.

Su questo substrato che proviene da una concezione umanistica della terapia, e quindi da una visione dell’uomo capace di cambiamento ed evoluzione, si fondano gli aspetti teorico-metodologici e le tecniche di intervento. Il nostro modello si contrappone alla concezione freudiana che mette la colpa al centro della visione dell’uomo, secondo la rappresentazione del complesso edipico. L’ottica umanistica si focalizza invece sul potenziale di crescita e nella Gestalt in particolare si parla di adattamento creativo, concetto che ha avuto molta influenza nella teoria del copione.

Le scelte copionali sono frutto di un compromesso all’interno del quale la valutazione è basata sull’ottenere il maggior vantaggio con il minor rischio possibile. Sono scelte economiche, alimentate non da principi cognitivi o autodistruttivi bensì dalla “fusis”, indicata da Berne come l’energia che stimola alla crescita e all’evoluzione. Sicchè possiamo assumere che l’analisi transazionale ha un proprio tipo di setting più aperto e variato rispetto al fare psicoanalitico, proprio in dipendenza dei diversi presupposti dai quali storicamente è partita.

L’analisi transazionale si è proposta come terapia “eretica” e tale fu considerato Berne, il quale peraltro, a chi quando ormai conosciuto per il nuovo approccio gli chiese se sarebbe rientrato nelle fila degli psicanalisti, rispose che troppo grande era diventata la distanza tra lui e loro. Ne criticava il modello troppo rigido ed eccessiva razionalità che considerava un limite all’intuizione, requisito fondamentale per individuare e diagnosticare gli Stati dell’Io. Sottolinea questi aspetti aneddotici perché a volte, nell’ansia di trovare matrici epistemologiche, si dimenticano le divergenze e i sostanziali allontanamenti dalle origini. L’enfasi dell’Analisi Transazionale classica fu sul cambiamento visibile e verificabile attraverso una pratica terapeutica attiva, piuttosto che sul ricostruire la memoria e dare significato alla storia personale. In seguito gli analisti transazionali, fortunatamente, si sono orientati verso investigazioni ben più profonde del mero conseguimento del controllo sociale, integrando principi teorici di altre tradizioni e tra questi ridando spazio e valore anche alle matrici psicanalitiche, il che ha permesso trattamenti di maggiore spessore e più vasto campo di intervento.

L’analisi transazionale, pur con le sue integrazioni, ha sempre conservato la propria identità di terapia con obiettivi, mirata al cambiamento e focalizzata sulla relazione, e quest’ultima non solo riferita ai fenomeni di transfert e controtransfert ma anche a quanto realmente succede oggi, nel qui ed ora del rapporto. Le simpatie e antipatie, le gratificazioni e le frustrazioni, sono attivate anche dalle persone reali, dal terapeuta e dal paziente con la loro identità, e non soltanto da ripetizioni di drammi transferali e cioè da fenomeni di Copione.

Ci sono situazioni in cui il paziente è antipatico davvero e non riflette necessariamente il “fratellino aggressivo” del terapeuta, il quale a sua volta, in certi casi, effettivamente reagisce in maniera dura. Se il paziente gli chiede: “Perché mi hai trattato male?” Sarebbe poco onesto controbattere: “ Cosa stai proiettando su di me? Forse vedi in me tuo padre quando ti trattava male?”. La verità è che ha reagito duramente è che il paziente ha di fronte il terapeuta in persona e non un’immagine paterna.

Sarebbe poco etico fargli credere che ha le “traveggole”, magari per non perdere il ruolo. È l’insieme che crea la relazione, sia il transfert che la realtà dell’incontro, e queste interazioni favoriscono o rendono difficile il rapporto terapeutico, che a ragione quindi diventa un fenomeno centrale nella costruzione del setting.

Nell’analisi transazionale ci furono fin dalle origini molti e differenziati fattori che la caratterizzarono e che, apparentemente in contrasto tra loro, ne fecero un approccio ricco e articolato per la sua flessibilità. Per certi aspetti fu favorita una forma di distanza del terapeuta. Mi riferisco in particolare all’uso della lavagna come strumento analitico che tendeva a rendere più neutrale l’intervento. Al paziente veniva offerto uno strumento “ obiettivo” che proponeva l’autorità della teoria come “super partes” tra lui e il terapeuta il quale, in quella fase, affievoliva di fatto la propria responsabilità nella relazione. La rappresentazione grafica costituisce un filtro che favorisce il concentrarsi sulla comprensione e riduce gli effetti del processo relazionale così importante in psicoanalisi che tendeva a svilupparlo attraverso l’attivazione della nevrosi di transfert.

Mettere tra sé e il paziente la lavagna e su di essa la rappresentazione di una teoria, produce anche un implicito evitamento di contestazioni e coinvolgimenti emotivi. La teoria ha prestigio e come tale riduce le resistenze del paziente e rassicura il terapeuta, il quale più facilmente può gestire la relazione nelle situazioni di conflitto. Fu una scorciatoia metodologica, così come lo furono altri tipi di intervento connessi all’analisi strutturale, tesi soprattutto a realizzare i termini cognitivi l’attivazione dell’Adulto, in linea con la filosofia berniana del “prima cura”. Per altri versi la diagnosi degli Stati dell’Io mise in primo piano i vissuti dell’analista e quelli dei componenti del gruppo come strumento diagnostico e terapeutico insieme, quando si occupa delle relazioni controtransferali sulle quali si basò la diagnosi sociale.

Il terapeuta veniva chiamato direttamente in causa e anche se non in maniera espressa, faceva i conti con i suoi vissuti interni in relazione a quanto il paziente proponeva. In questo modo potevo operare le prime conferme sulle diagnosi intuitivamente abbozzate attraverso l’osservazione del comportamento. In realtà gran parte della terapia dell’analisi transazionale si focalizzò sulla relazione facilitando l’ attivarsi di complessi fenomeni che coinvolgevano contemporaneamente il mondo intrapsichico e quello relazionale, come genialmente fu sintetizzato nella teoria dei “giochi”.

Da un lato viene favorita l’attenzione alla relazione e alle sue dinamiche interne e dall’altro l’intervento diretto, focalizzato, tende ad eliminare gli approfondimenti. La terapia rivolta al controllo sociale è di tipo comportamentale e non c’è bisogno di particolari coinvolgimenti dalle parti in causa, serve ed è utile una tecnica precisa.

D’altro lato il lavoro faccia a faccia rese più immediato il contatto e di conseguenza il terapeuta fu sollecitato ad una partecipazione attiva e più difficilmente poteva mascherare le sue reazioni e sfuggire agli stimoli inviati dal paziente. Si abbreviarono i tempi dell’elaborazione interna e la risposta divenne più diretta e immediata. Nel rapporto subentro Maggiore confidenza facilitata dalle particolari dinamiche che si creano nel contesto di gruppo. Il setting diventò più articolato e complesso aprendo lo spazio a maggiori trasparenze.

Gli analisti transazionali si sono variamente caratterizzati e furono più o meno neutrali o più o meno coinvolti e attenti alla relazione secondo le loro personalità.

Di fatto Berne aprì la strada a molteplici possibili posizioni che venivano proprio dalle teorie che andava formulando. Nacquero diversi filoni che allievi di personalità e cultura diversa svilupparono secondo la loro inclinazione.

Nella mia formazione di gestaltista ho molto appreso sul controtransfert. La Gestalt ancor prima di alcuni filoni analitici dette particolare valore al coinvolgimento personale del terapeuta, il quale si interroga sul cosa sta vivendo nel rapporto e questo vissuto lo traduce in termini terapeutici, creando una particolare comunicazione persona a persona a seconda delle circostanze, perché in molte situazioni la valutazione personale potrebbe indicare come più opportuna una maggiore neutralità.

Ritengo che ci sono casi in cui la trasparenza è un mezzo davvero efficace, mentre in altre occasioni può essere poco produttiva o addirittura dannosa per lo stesso paziente che la richiede. In ogni caso considero il lavoro sul controtransfert come fattore importante per la crescita personale e fondamentale per la supervisione. Nel setting di gruppo il terapeuta può diventare ancora più attivo che in quello individuale. È portato a scoprirsi di più ed è maggiormente sollecitato ad entrare nel gioco delle relazioni. Diminuiscono ulteriormente le possibilità di tenersi neutrale e aumentano gli stimoli per la trasparenza. Spesso a causa degli elevati livelli emozionali che nel gruppo si attivano, diventa più difficile analizzare dentro di sé il transfert e il controtransfert e le reazioni sono meno mediate e più intuitive. Nella situazione gruppale, soprattutto nei gruppi residenziali e anche se non voluto, c’è un implicito modo di rivelarsi e raccontarsi. Una implicita o dichiarata trasparenza.

Tutto ciò influenza notevolmente la relazione che gioco forza diventa più fluida e con maggiori imprevisti, più legata al qui ed ora e quindi più flessibile. Un ulteriore fattore che influenza il setting è dato dal fatto che nel modello AT il paziente è invitato a risposte focalizzate. La libera associazione cede il posto ad interventi puntuali. La distrazione dall’oggetto del trattamento, contrattualmente convenuto, viene frustrata con richiamo al tema. La confrontazione diretta mette in moto meccanismi reattivi e di conseguenza il dialogo tra terapeuta e paziente diventa più serrato. A volte sono necessarie risposte e decisioni rapide per far fronte alle situazioni che si vengono a creare.

Voglio portare il discorso ancora più avanti. Proprio in considerazione delle molteplici possibilità che si aprono in termini teorici e in termini operativi, propongo di definire il setting come la specifica e irriproducibile relazione che, date certe regole, si produce tra quel terapeuta e quel paziente o le relazioni che si instaurano tra quel terapeuta e quel gruppo, nonché le relazioni dei componenti tutti del gruppo tra loro e con il terapeuta. Poiché le energie in campo sono davvero tante ed è molto difficile analizzarle, il setting diventa l’esperienza “vivente” di un incontro terapeutico che si avvale delle regole e va al di là di esse, creando di volta in volta e di fatto la storia e la teoria di quello specifico setting, che partendo da modelli di riferimento iniziali trova nel contesto reale le ue concrete attuazioni.

Ci sono oggi linee di tendenza dell’ AT ed anche nella Gestalt, che spingono a ritrovare le matrici originarie e questo da un lato porta a rivalutare categorie troppo frettolosamente espulse, d’altro lato propone irrigidimenti di scuola. Ci sono oggi linee di tendenza nell’AT ed anche nella Gestalt, che spingono a ritrovare le matrici originarie e questo da un lato porta a rivalutare categorie troppo frettolosamente espulse, d’altro lato propone irrigidimenti di scuola. La comunicazione e le interazioni sociali non sono le stesse dei tempi di Freud, e i nostri setting necessariamente devono fare i conti con i fenomeni di divulgazione e di integrazione che la cultura del nostro tempo propone in ogni area della conoscenza. Non solo, si fa sempre più pressante la necessità di intendere i nuovi fenomeni che emergono dall’incontro di gruppi etnici e culture diverse.

Per queste ragioni ritengo importante che la nostra formazione insegni a sciogliere le rigidità teoriche e metodologiche e che stimoli l’apertura e la flessibilità, dando maggior valore all’esperienza personale. Oltre al rispetto del codice etico, al per seguire i principi filosofici che condividiamo, ad ispirarci alle teorie di base dell’AT e a regolare chiaramente i contratti amministrativi, Ritengo che terapeuti e pazienti abbiano ampio spazio creativo per costruire il loro setting e sono d’accordo con quanti hanno già espresso questa opinione. Terapeuti e pazienti sono persone con specifiche personalità e caratteri. Cometa li danno vita, nell’arco dello spazio-tempo terapeutico, come ho già sottolineato, a storie e narrazioni del tutto irripetibili che sono effetto di quell’ incontro.

Come ho anticipato all’inizio, Freud ebbe nel tempo attitudine diversa, e contraddicendosi, teorizzava La neutralità per poi proporre in momenti successivi il coinvolgimento emozionale dell’analista, e non solo Limitatamente alla esplorazione silenziosa del suo mondo interno stimolato dall’incontro con l’altro. In realtà la struttura fobica da un lato lo teneva fedele al riferimento teorico che grazie alla sua salvezza lo rassicurava, e lì divenne maestro, e d’altro lato da controfobico.

Si propose come innovatore rivoluzionario, creativo e coraggioso. Nella sua opera manifestò insieme la paura di fondo che lo caratterizzava, spingendolo a cercare certezze nei modelli teorici e per altri versi la reazione, l’aspetto controfobico, la capacità di rischio che lo portò oltre i limiti della cultura condivisa, cosa che fece in maniera geniale. Alcuni kleiniani, e tra essi Fairbain, hanno proposto la partecipazione Attiva dell’analista, Mentre bio-on praticò una più rigida astinenza. I terapeuti, spesso senza darsene conto, nei loro setting introducono continuamente nuove modalità e nuove regole, si adattano alle situazioni e questo diventa di volta in volta Il setting, cioè la storia di una relazione o di più relazioni, quando si lavora in gruppo. Facciamo l’esempio di un terapeuta con struttura ossessiva. Più che altri tenderà a rispettare le regole, forse ne istituirà altre, sue proprie, per mantenere il controllo nella relazione, e in questo modo si rassicura a costo di diventare eccessivamente Severo ed esigente.

Una tipologia istrionica tenderà invece ad ammorbidire Il setting e a favorire maggiore espressione e più partecipazione emotiva, fino a cadere, quando va all’eccesso, in rapporti improntati alla seduzione. In maniera ancora diversa si comportano le tipologie schizoidi. Tendono ad organizzare relazioni più fredde, governate dalla razionalità e con poco coinvolgimento emotivo. La regola principale è il distacco. A questi terapeuti rispondono pazienti che hanno anch’essi loro proprie tipologie. L’incontro tra un terapeuta istrionico ed un paziente dello stesso tipo può favorire la strutturazione di un setting drammaticamente ed emozionalmente vivo, a volte piacevole a volte doloroso, a volte totalmente inutile. Ciò che mi sembra rilevante in questo discorso è che il terapeuta conosca al meglio il proprio modo di essere, i suoi limiti e i suoi punti forti, e che organizzi Il setting seguendo le caratteristiche personali.

E’ poco produttivo ignorarle sforzandosi ad entrare in griglie e modelli precostituiti che non ci corrispondono. C’è un tempo per l’apprendimento e contano le regole, sono queste che vanno in primo piano, e il tempo della maturazione, in cui ciò che conta è il proprio saper fare, frutto sì della teoria, ma soprattutto delle elaborazioni personali che ci hanno ispirato. È necessario che la teoria non resti una introiezione mal digerita. Pur partendo da basi comuni ognuno di noi fa l’analisi strutturale di Stati dell’Io alla propria maniera. Ci mette dentro la sua esperienza, la sua storia, la sua cultura, e le conclusioni e gli effetti saranno diversi per ciascun operatore. Sono l’esperienza personale e la conoscenza di sé che facilitano la capacità di contatto e la comprensione del mondo dell’altro, qualificando allo stesso tempo la terapia.

Quello che oggi costituisce il mio maggior interesse è proprio lo studio delle tipologie, delle strutture caratteriali della personalità, perché sono proprio queste che entrano nel setting e fanno le differenze. Chi già mi ha sentito parlare su questi temi sa che faccio riferimento alle nove strutture di base e alle ventisette substrutture proposte dalla Psicologia degli Enneatipi. La conoscenza del proprio tipo caratteriale e del nucleo sul quale si fonda, organizzato in termini di strutture di Copione, aiuta notevolmente la competenza del terapeuta e la sua capacità di prevedere e gestire le proprie reazioni transferali e quelle del paziente. Discorso analogo vale per la supervisione. In sintesi ritengo che l’elemento fondante del setting sia l’insieme delle esperienze che paziente e terapeuta riescono a costruire insieme ai fini del cambiamento.

Potremmo dire, anche a costo di essere riduttivi, che il terapeuta si muove nell’ambito di tre stili relazionali di base: il generoso, l’attivatore e l’accogliente ai quali, quando passano sul versante esasperato, corrispondono rispettivamente i ruoli di Salvatore, Persecutore e Vittima. Il generoso spende troppo e si perde nel dare ottenendo poco risultato, l’attivatore esige e manifesta un Genitore che pretende richiedendo eccessivo impegno, l’accogliente invece si dimentica di sè identificandosi nel Bambino dell’altro. Ovviamente non bisogna tralasciare le numerose possibilità che vengono prodotte dalla combinazione dei diversi tipi tra loro. Altro punto di rilievo è contestualizzare la relazione nel setting formale, di cui possiamo considerare perlomeno quattro categorie: terapia individuale, piccolo gruppo e famiglia, gruppi residenziali e grandi gruppi, che comprendono interventi socio psicologici o ad indirizzo transpersonale. In ciascuno di questi contesti cambia il ruolo del terapeuta è il tipo di relazione che instaura con il paziente, fluendo da contatti più formali e riservati verso sempre maggiore coinvolgimento e trasparenza.

Ovviamente anche gli obiettivi e gli effetti terapeutici sono diversi. Un discorso a parte meritano i programmi SAT, dove lavorano insieme più terapeuti con diversi ruoli e Tradizioni di scuola, con partecipanti che sono Allievi in formazione, professionisti della terapia, e persone che semplicemente seguono percorsi personali. Un modello di cui ho già parlato in altre occasioni che si allontana da ogni forma di setting tradizionale e che, a mio parere, costituisce un importante stimolo per più ampie aperture verso la prevenzione e la “cura” delle problematiche dei grandi gruppi sociali.

In queste situazioni l’esposizione di ciascuno è tale che facilmente cadono i ruoli e le relative barriere difensive. Allora il “terapeuta”, pur mantenendo la sua funzione, perde ruolo e diventa egli stesso partecipante attivo. Emerge prepotentemente la relazione e viene facilitata una maniera di proporsi improntata a spontaneità, consapevolezza e intimità, condivisa da tutti i partecipanti ivi compresi i terapeuti e i supervisori. I fenomeni che si verificano sono molto complessi e articolati, difficili da studiare. L’effetto evidente è che si rinforzano principi di solidarietà e di comprensione per l’altro che diventano collanti e cultura condivisa per la comunità dei partecipanti, principi che permettono di continuare il lavoro insieme, anche in assenza di un terapeuta o di una guida riconosciuta.