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Il sogno come esperienza: un messaggio esistenziale per reintegrare le parti alienate di Sè

Pubblicato in: Il Sogno nell’Analisi Transazionale clinica – Ed. Marotta – Napoli, 1989

 

“Dal sogno alla realtà: il sogno come portale tra conscio e inconscio, strumento di consapevolezza”

 

“Il sogno e lo stato di veglia sono due modi diversi attraverso i quali l’uomo vive la stessa realtà.”

 

L’approccio di Berne al sogno è sostanzialmente di stampo freudiano. “Invece di pensare a ciò che dovrebbe fare secondo la morale… l’individuo che si assopisce comincia a pensare a ciò che gli piacerebbe fare…” e quando infine sopraggiunge il sonno “non solo divieti e morale, ma anche il mondo obiettivo della realtà, con le sue possibilità fisiche e sociali limitate”, si dissolve e il Bambino ha la possibilità “di perseguire nei sogni il suo procedimento magico”. (Berne, 1961).

L’idea freudiana che i sogni siano realizzazioni di impulsi irrazionali, repressi durante la veglia, sembra sostanzialmente condivisa da Berne, pur se debitamente mitigata dalla diversità dei due protagonisti nelle rispettive teorie. L’Es per Freud e il Bambino per Berne. E. Fromm, citando Bergson, condivide con lui una visione più ampliata, rispetto a quella psicoanalitica classica, secondo la quale “i sogni partecipano tanto della nostra natura irrazionale, quanto di quella razionale” (1951). Come dire che il sogno è espressione della natura dell’uomo nella sua globalità. Molti più aspetti e contenuti emergono dal lavoro sul sogno, se si estende la visione da un approccio di tipo psicoanalitico ad uno di tipo più esistenziale.  

L’Analisi Transazionale, a mio parere, possiede due diverse matrici, quella freudiana e quella esistenziale, proprio come la psicoterapia della Gestalt. Forse proprio queste due anime comuni hanno favorito la loro reciproca curiosità, che già Berne rilevava in Principi di terapia di gruppo (1966). È noto come l’incontro tra i due sistemi teorici abbia dato vita ad un filone ricco e proficuo di psicoterapia. Avvicinandomi al mondo del sogno, lo faccio dal punto di vista della Gestalt, da una parte, perché considero che il suo contributo all’AT è pienamente riconosciuto, e dall’altra parte perché ritengo che la matrice più sentitamente esistenziale della Gestalt non sia stata sufficientemente assorbita ed utilizzata. Dopo la scoperta freudiana e il lavoro di Jung, ritengo che F. Perls abbia dato al sogno il contributo più ricco e creativo nella moderna psicoterapia. In questa sede, mi propongo di presentare alcune delle idee di questo geniale innovatore, ed alcune conseguenze teoriche e pratiche che, dal mio punto di vista, ne derivano. Sono consapevole, nell’affrontare questo argomento, che quello che dirò non sarà certamente esaustivo rispetto alle innumerevoli possibilità che offre il mondo del sogno.

 

Realtà del sogno – Realtà dello stato di veglia

Spesso quando un paziente racconta un sogno, lo fa con tono piatto e inespressivo. Sembra che la sua storia non gli appartenga, che quello che dice sia privo di interesse, sia incomprensibile, come estraneo da sé. Mi guarda come per dire “lo faccio per accontentarti”.  L’idea che c’è dietro è che un sogno è una fantasia e per questo, è irreale. I problemi che ha sono concreti, sta male, ha sofferenze vere. Quasi è arrabbiato con me. Ho difficoltà a sottrarmi al dialogo che il suo tipo di logica mi rimanda. Mi viene in soccorso il vecchio aforisma del poeta cinese: “Ieri notte ho sognato di essere una farfalla, e ora non so se sono un uomo che ha sognato di essere una farfalla o una farfalla che sogni di essere un uomo” (Fromm, 1983).

Comunemente si pensa che la realtà sia costituita dalle esperienze contattabili attraverso le funzioni dell’Io. E che sia invece irreale quando cade fuori della nostra percezione e comprensione. Analogamente i sogni, come le allucinazioni, non vengono considerati come elementi del mondo reale. Ma il fatto che gli psicotici contattino la realtà in maniera diversa, non vuol dire che ne siano fuori. Anche i bambini vivono le loro fantasie e “allucinazioni” come parti del mondo reale così come gli adulti; ricorda ironicamente Goodman (1971), “dedicano tempo alle opere d’arte cioè alle allucinazioni di altre persone”. Namkay Norbu, maestro di Dzogchen, una via di conoscenza della tradizione tibetana, insegna che la visione umana e quella del sogno sono la stessa cosa. “Tutta l’esistenza ha la natura di una magica manifestazione della mente, difatti, benchè appaia diversificata, è falsa come un’immagine riflessa. Lo stato fondamentale della mente è originariamente vuoto e, quindi, privo di Ego” (1980). Ogni esperienza, sia essa nello stato di veglia che nel sogno, è l’effetto di una visione dualistica ove il fenomeno si scinde dalla propria natura oggettivandosi.  Il sogno e lo stato di veglia sono due modi diversi attraverso i quali il “fenomeno uomo” vive la stessa realtà.

Sperimentare il messaggio esistenziale

Come primo obiettivo mi propongo di far sperimentare al paziente che il sogno rappresenta il suo modo di vivere, che si manifesta in uno stato di coscienza diverso da quello dello stato di veglia. Favorisco il contatto con l’esperienza sognata e quindi la prima integrazione tra il sé paziente e il non sé sogno, attraverso il riconoscimento che il sogno è la sua stessa esistenza. Raccontando il sogno con questa enfasi, è facile che riscopra se stesso e aspetti della sua vita, in quell’insieme di immagini raccontate come un’esperienza estranea. Una donna di oltre 30 anni che si è rinchiusa nel suo ristretto mondo familiare, impaurita da ogni possibilità di uscirne e di allontanarsi, mi racconta un sogno nel quale un gattino bianco, bello e coccolato, beve latte. Quando le faccio aggiungere ad ogni frase del racconto “e questa è la mia esistenza”, il contatto con il suo modo di vivere è immediato. Sperimenta pienamente con tutto il suo essere la trappola in cui si è messa. Il sogno le sta dando un “messaggio esistenziale” come amava definirlo Perls: le sta dicendo nel suo particolarissimo linguaggio come conduce oggi la sua vita.

“E’ più di un’espressione di desiderio, è più di una profezia, è più di una situazione incompiuta. È un messaggio di te stesso a te stesso, a qualsiasi parte di te ti stia ascoltando”. (Perls, 1970). Il sogno viene trattato come esperienza diretta del paziente piuttosto che interpretato. Lascia che “l’esperienza parli per se stessa” non limitarti a ricordare il sogno, ma “riportalo in vita”, suggerisce Claudio Naranjo (1983). Il riferirlo al presente, con l’attitudine a considerarlo come aspetto della propria esistenza, permette di riavvicinare le parti alienate del sé e di ristabilire con esse un contatto non mediato dalla interpretazione del terapeuta, ma frutto della propria esperienza. Inoltre, questa modalità suggerisce che il  mondo rappresentato nel sogno è attuale, non riproduce solo ciò che è stato, ma, soprattutto, quanto  della propria vita è ancora incompiuto. Questa posizione porta a conclusione diametralmente opposte a quelle di Freud, il quale ritiene che gli umpulsi che appaiono nei sogni sono irrazionali e, pertanto, appartengono al bambino che vive ancora nell’Adulto. Se il sogno è del Bambino, conclude, il suo contenuto non fa parte della persona “normale” che ora egli è. In questo modo liquida il suo desiderio di diventare professore universitario comparso nel famoso sogno sull’amico R., ovvero lo zio, relegando la sua ambizione a un desiderio dell’infanzia non più attuale (Fromm, 1951). Il sogno rivela un sentimento, un’ambizione, che Freud nega di poter vivere, scindendo il Bambino dall’Adulto, il passato dal presente e non riconoscendo i desideri attuali, nel caso specifico quello di diventare professore universitario.

Difesa dal sogno

Il distacco e l’indifferenza nel riferire il sogno, così come dimenticarlo, sono entrambe tendenze ad alienare dalla consapevolezza le forze “pericolose” che si affacciano alla coscienza, mascherate dietro il linguaggio metaforico del sogno. Perciò il sogno fugge così rapidamente, oltre alle ben note spiegazioni di tipo fisiologico sulla memoria a breve e a lungo termine (Thomson 1987).

“Di fronte alla spontaneità del sogno, l’equilibrio del sé e la sicurezza del suo organismo sembrano essere in grave pericolo e l’essere vigile, attivo…sono formazioni reattive al pericolo del sogno” (Perls, 1971). Dal sogno possono emergere immagini di sé che non corrispondono al proprio Io idealizzato (Morris, 1987) e anche esperienze dolorose del passato, coperte dall’adattamento al proprio modello di vita che, se emergessero, porterebbero dolore e umiliazione. Il sogno contiene i nuclei del proprio copione e affrontarli produce sofferenza. Il sonno buio e la dimenticanza in esso difendono dal contatto con i Sé alienati, gli affari non compiuti che reclamano attenzione. Naturalmente, è proprio il conoscere e il rivivere il dolore che porterà al suo superamento. Richiamando alla luce i messaggi nascosti dei nostri sogni li demistifichiamo e riduciamo le possibilità di farci ferire (Morris, 1987).

 

Comprensione e linguaggio simbolico

La difficoltà nella comprensione del sogno deriva dal fatto che il linguaggio adottato è di tipo “concreto non verbale, sensoriale, eidetico” mentre nello stato di veglia “verbalizziamo i nostri propositi astratti” (Perls, 1978). Il sogno è l’espressione più spontanea dell’essere umano e il linguaggio che più gli si avvicina è quello dell’arte. “E’ un pezzo d’arte che ceselliamo fuori delle nostre vite”, enfatizzava Perls (1970).

Il sogno, come il linguaggio del bambino, è fuori dai principi della logica e dalle categorie dello spazio e del tempo. Ciò non vuole dire che nel sogno non vi sia logica, ma piuttosto che essa risponde a leggi diverse. Lo sforzo di chi lavora con il sogno è quello di tradurlo in termini adattabili alla cosiddetta vita concreta, quella che si svolge nella realtà individuo-ambiente. Se mi accosto al sogno con gli strumenti interpretativi attraverso i quali riportarlo entro i limiti definiti da qualche sistema teorico, o mi limito a chiarificarne gli aspetti simbolici, privo il sogno della sua spontaneità, e soprattutto mi impedisco di considerarlo come la creazione personale di quell’individuo nella sua unicità.

Non vi è dubbio che il sogno è ricco di simboli e metafore. Alcuni simboli hanno valore universale, altri provengono da determinate culture, altri sono strettamente personali. Anche i simboli universali, accanto ai significati collettivi assimilabili ad esperienze di altri, assumono connotazioni riferibili solo alla personalissima esperienza, frutto di quell’unico modo di essere nel mondo. Il simbolo va inserito nel contesto della realtà del sognatore con la sua esperienza culturale e le sue personali vicissitudini. Sicchè il fuoco, generalmente considerato come simbolo universale, suggerirà diversi significati all’uomo del nord rispetto a quello del sud, così come il fuoco di un incendio è diverso da quello di un camino (Fromm 1951), e può essere elemento distruttivo o vivificante, simbolo di paura o di gioia. Altri simboli sono solo accidentali, cioè legati ad una esperienza particolarmente incisiva, che poi diventa simbolo di determinati stati d’animo per quella persona che l’ha vissuta. E. Fromm (1951) esemplifica il concetto in questo modo: se ho avuto un’esperienza triste in una città e ogni volta che ne sento il nome sto male, la città in sé non ha nulla che fa star male. Se la sogno, sta per lo stato d’animo che una volta ho provato in essa. Questo simbolo, la città, che Fromm definisce accidentale, non può essere condiviso da nessun altro.

 

Attitudine del terapeuta

In base a tutte queste considerazioni ne consegue una particolare modalità di porsi del terapeuta di fronte al sogno del paziente. Parte dalla premessa che l’unico che ne sa qualcosa in proposito è proprio lui, il paziente. Il vero specialista nella comprensione del sogno è chi lo ha sognato. È lui che ne ha costruito la trama e ne possiede i significati: soprattutto ne ha vissuto l’esperienza. Gli strumenti interpretativi sono insufficienti per accedere alla creatività del sogno. C’è un’abitudine alla neutralità del terapeuta, che è stata portata avanti dalla psicoanalisi e che molte scuole hanno assunto come propria.

Di F. Perls si racconta che era un maestro nell’essere neutrale e nel non agganciarsi ai giochi dei pazienti, ma la sua neutralità era piena e densa di significato. Il silenzio può essere pieno o vuoto, e allo stesso modo, il terapeuta può porsi in relazione in modo neutrale ma vivo e partecipe, o vuoto e senza contatto. Quando seguiamo i nostri modelli, le teorie, la compulsione a fare, perdiamo il rapporto con il paziente, stiamo agendo per il nostro “ideale professionale”. La tecnica, la strategia, l’ipotesi teorica e la soluzione vanno in primo piano, piuttosto che il contatto con la persona che sta di fronte e con il mondo di sollecitazioni fisiche, emotive e cognitive che sta offrendo. Se accetto di cogliere questi messaggi e di “stare” con lui in un sottile silenzioso dialogo IO-TU, i tempi per l’intervento tecnico si dilatano, si fa strada l’esperienza. Può giungere un particolare momento in cui l’IO-TU sembra un unico organismo con due polarità. In quel momento il terapeuta è in contatto profondo, e altrettanto profonda è la comprensione dell’esperienza dell’altro.

Il mio interesse non è rivolto al solo racconto e ai contenuti del sogno, ma al processo nella sua globalità. Guardo il paziente con i suoi gesti, espressioni, respiro, voce, sto attento ai segnali emotivi, tutto questo è parte del sogno. Entro in un continuo di consapevolezza con attenzione, momento dopo momento alle mie reazioni fisiche, emotive e ai pensieri e fantasie che emergono in relazione all’esperienza del paziente. Se mi permetto di assumere questa attitudine meditativa, in uno stato rilassato e consapevole, l’intervento tecnico si farà luce da solo e sarà più corrispondente a quella specifica relazione con quello specifico paziente, che non ad un generico intervento da usare indifferentemente con questo o con quello. Detto in altri termini, è un modo di usare il controtransfert, attraverso una pratica che dà in prima istanza attenzione allo sviluppo e alla crescita personale del terapeuta, intesi come momenti inalienabili dalla capacità tecnica e teorica.

 

Riferire al presente

Senza dimenticare le premesse voglio ora considerare più dettagliatamente alcuni possibili interventi tecnici. Nel sogno più su riportato, quello della donna che si identificava nel gattino, il primo passo compiuto è stato di ridare vita e, contemporaneamente, attualità al racconto. Riportare il sogno nel “qui ed ora”, narrandolo al presente, interrompe la frattura con il passato e ricorda che l’unico tempo che sto vivendo è quello attuale. Il passato non c’è più e il futuro è soltanto possibile. Presentificare il passato o il futuro, attraverso la fantasia per esempio, ha precedenti in discipline spirituali più vecchie della terapia. È alla base della storia del dramma e del recitare i sogni, come fanno alcuni popoli primitivi (Naranjo, 1970). La pratica del “presente” tradotto in terapia come “qui ed ora” è il punto focale di molte forme di meditazione. La ragione profonda è che se vivo consapevolmente la mia esperienza con piena presenza, non c’è scissione tra sperimentatore ed esperienza vissuta.

Sono pienamente coinvolto o, detto in altro modo, in profondo contatto. In fondo la nevrosi deriva proprio dalla mancanza di contatto con l’esperienza che vivo. La mente mi imprigiona con i giudizi, i modelli, gli ideali e mi separo sempre più dal bisogno reale. Quando sono pienamente immerso nel “qui e ora” non c’è più spazio per l’impasse perché l’unica realtà esistente è quella che sto vivendo, non c’è un’approvazione o una disapprovazione, entrambe provenienti dal passato sperimentato o dal futuro paventato sotto forma di fantasia allucinatoria che non mi permette di vivere la realtà del momento. Mettersi nel presente è un modo per stare in meditazione ma anche per sciogliere il conflitto in modo diretto, immediato, per aprire la strada alle Gestalt incompiute.

 

Identificarsi con le parti alienate

Un modo sintetico e creativo per sperimentare insieme il qui e ora e il messaggio esistenziale del sogno, è quello usato da F. Perls di far vivere le parti del sogno, drammatizzandole. Questa modalità favorisce il contatto e la reidentificazione con gli aspetti alienati del sé, Perls considerava ogni elemento del sogno, ogni oggetto, persona, animale, sentimento, come una proiezione. Per effetto della proiezione “abbiamo disconosciuto, alienato certe parti di noi stessi e le abbiamo messe nel mondo, fuori di noi, piuttosto che averle disponibili come proprio potenziale” (Perls, 1970).

La conseguenza è che viviamo scissi e frantumati. La proiezione e la conseguenza di una decisione di copione, presa per difendersi da un pericolo che è vissuto in maniera tanto più catastrofica, quanto più il bambino si sente minacciato nella sua esistenza. La possibilità di scampo intuita dal bambino nella primissima infanzia, percepita inizialmente soltanto attraverso il sistema somatico, è di alienarsi eliminando da sé pezzi di sé. L’obiettivo della terapia è di facilitare la reintegrazione. Se abbiamo lasciato tante parti di noi nel mondo, siamo pieni di buchi, di vuoti da riempire: Gestalt aperte che chiedono completamento. Perls riteneva che in terapia va messa l’attenzione sul fatto che non è attivo ciò che è stato, ma al contrario è attivo proprio ciò che non è stato. Quello che è stato è un affare compiuto.

La situazione incompiuta nel passato, invece, vive ancora nel presente e chiede completamento (Perls, 1977). Questi concetti sono in linea con la teoria berniana del copione ove l’autolimitazione risponde alla domanda “cosa non posso fare”, e la domanda che si pone il terapeuta è “cosa è mancato”. Nella drammatizzazione delle parti del sogno, suggerisco modalità tecniche che si avvalgono di libera associazione e focalizzazione. Questo per evitare che la ricchezza di spunti che offre il libero associare si disperda in una libera dissociazione, come amava definirla F. Perls. Il focalizzare, infatti, facilita il contatto con il qui e ora e fa evitare l’iperdettagliamento difensivo. Lo scopo ultimo è di ripristinare il contatto con la consapevolezza interrotta, per reintegrarne i tre livelli di esperienza, sensoriale, emotiva e cognitiva, che procedendo dallo sfondo in primo piano, vengono riacquisiti nella personalità. L’Io si arricchisce di nuove funzioni e l’energia legata che si libera può essere guadagnata dall’Adulto e quindi canalizzata verso comportamenti più produttivi.

Ritengo che nell’esperimento di drammatizzazione, qualunque sia la parte vissuta, siano sempre presenti l’energia del Bambino e l’Adulto, che osserva.

 

La parte rifiutata

Ritornando al sogno del “gattino bianco”, quando la paziente si identifica in lui, scopre che il latte non le basta. “Sono bello e coccolato ma ho fame, non voglio più latte, voglio qualcosa da mangiare, ho denti…li voglio usare…non mi bastano le coccole, voglio di più…”, comincia ad emergere la consapevolezza del bisogno represso che si nasconde dietro il suo adattamento: prende contatto con aspetti disconosciuti di sé. L’interpretazione del terapeuta naturalmente non è del tutto assente, interviene necessariamente quando dirige il lavoro, guidando il paziente. Tra le varie scelte possibili, ne effettuerà una, che sarà la sua personale risposta all’esperienza che il paziente gli offre. È un po’ come disegnare un tracciato lungo il quale, entrambi, paziente e terapeuta, si possano muovere. Dall’esperienza della paziente emerge qualcosa di non finito, un “buco”  nella personalità. In pratica è ferma e paralizzata, perché ha preso un adattamento passivo e si impedisce di agire la sua aggressività sana che le permetterebbe simbolicamente di “usare i denti”, per uscire dalla trappola in cui si è cacciata, e di affacciarsi finalmente alla vita fuori, nel mondo. Il prossimo obiettivo sarà quello di riappropriarsi della aggressività alienata. Scelgo un altro elemento del sogno che mi sembra contenga queste caratteristiche. “C’è un cane brutto che rifiuto…”. E’ l’aspetto della personalità che più è tenuto lontano, dal quale la paziente rifugge in favore di una “bella immagine” di sè.

I messaggi genitoriali dell’infanzia le hanno inculcato una scala di valori sul “bello” e il “brutto”, il “buono” e il “cattivo” ai quali ancora obbedisce.  Le chiedo di identificarsi nell’animale. “Sono brutto, forte, sono vivo, la mia è una vita difficile…ma sono libero di andare dove voglio…”. Procedendo nella identificazione emerge sempre più chiaro il conflitto tra le due parti di sé, il gattino bello e coccolato, emblema della passività, e il cane brutto e forte, che, pur avendo una vita difficile, è libero di andare dove vuole. La paziente comincia a provare sentimenti intensi: una sorta di disperazione di fronte ad una scissione così netta. “Cosa devo fare”, “come devo essere”, si chiede angosciosamente. Il sogno presenta due aspetti del sè, uno più vicino alla coscienza e quindi accettato, l’altro rifiutato e messo fuori dalla consapevolezza. In questa fase della terapia l’elemento più importante è proprio quello più rifiutato, che, assente nello stato di veglia, compare prepotentemente nel sogno. Lì c’è energia.

Naturalmente entrambi gli aspetti del sogno sono adattamenti dietro i quali si maschera il vero sé. Per ora rivolgo l’attenzione ai due meccanismi difensivi che impediscono il contatto, l’introiezione e la proiezione che, interrompendo il processo di autoaffermazione della Bambina, la conducono ad uno stato di passività manifesta e di aggressività repressa e proiettata nel mondo esterno che vive come pericoloso. Il lavoro proseguirà verso l’integrazione della scissione che al momento la rende disperata e le fa percepire la sua condizione senza via d’uscita. Il sogno contiene un messaggio che le faccio formulare sotto forma di “titolo del sogno”: “Paura di vivere”. Così cristallizzo il suo stato attuale.

 

La parte mancante

Do particolare attenzione agli elementi che non compaiono nel sogno. Sono gli aspetti più alienati del sé e spesso nascondono nuclei di alta distruttività o sono ricchi di potenziale. Prendo ad esempio il sogno di un uomo di circa 30 anni, capace nella sua attività professionale, ma con seri problemi nei rapporti. Vive ancora in famiglia e ha una relazione sentimentale conflittuale e insoddisfacente. Nel sogno: “Un’amica è innamorata e piange il suo ragazzo ammalato di Aids che è già morto o sta per morire. Non si sa dove sta, nessuno lo trova. Il paziente nel sogno è addolorato e lo cerca ma dopo varie vicende non lo trova”.

Scelgo per la reidentificazione l’ammalato di Aids. È la parte mancante ed è il vero protagonista. Subito si rivela un aspetto duro da contattare. Il paziente rifiuta di identificarsi in lui. Uso una tecnica che spesso si rivela utile per favorire un avvicinamento alla parte alienata: lo invito a immaginare di essere un consulente esterno che lo aiuta nella comprensione del sogno. Un Adulto che osserva con occhio neutrale ed esperto. Lo porto gradualmente al contatto facendogli domande nel suo ruolo di Consulente. Terapeuta: “Per cosa sta pagando l’ammalato di Aids?” Paziente: “Non ha saputo rinunciare al vizio della droga, poiché è colpevole paga con la morte…”. Suppongo che in un lavoro successivo sarà utile approfondire i sensi di colpa che metaforicamente passano per la droga. Dopo un po’ entra in contatto con un profondo bisogno di attenzione. Paziente: “Deve morire per avere attenzione”.

In un altro brano del sogno appare il desiderio di un affetto pieno e caldo che non può avere. Un comandante militare si offre di seppellire il cadavere se verrà trovato. “I morti vanno seppelliti” ma è un atto umanitario senza amore. Non c’è nutrimento nel suo gesto: accoglie i morti. Dopo un pò di lavoro di libera associazione focalizzata, chiedo al paziente nel suo ruolo di consulente: “Qual è il messaggio del sogno”.  L’Adulto prende consapevolezza: “E’ mancato l’affetto, è solo, l’unica amica è la malattia”. Mi sembra, per inciso, la condizione tipica degli ammalati di Aids: la solitudine, l’isolamento. La malattia li porta all’isolamento del mondo come rappresentazione esterna del processo interiore.  A questo punto procedo verso un contatto più profondo: “Con chi ti identifichi nel sogno?”. Paziente: “Con la persona ammalata, disperata, che muore sola”. La voce incomincia a cambiare, è tremula, gli occhi sono lucidi, febbrili, le gote un po’ rosse. Terapeuta: “Qual è il senso di questa vicenda?”. Paziente: “Si raggiunge l’obiettivo, l’affetto, solo da morti”. Sta riferendo convinzioni profonde e dolorose, ma il contatto è ancora superficiale. Gli chiedo allora di raccontare di nuovo il sogno, aggiungendo tutti gli elementi che sono emersi al tempo presente e in prima persona. Lo considero un rinforzo per la consapevolezza e l’osservazione dell’Adulto. Contemporaneamente, è un modo per facilitare, la reidentificazione con le parti alienate. Dopo poco spontaneamente si identifica nell’ammalato di Aids…”Morirò…sono importante solo così… nessuno può capirmi… morirò perché non mi avete dato affetto. Lo dico a tutti, solo dopo capirete”. C’è dolore e rabbia nella sua voce. Trattiene il pianto. E’ in contatto con il bisogno e con l’impotenza a soddisfarlo. Gli elementi del ricatto sono molto forti. Il ricatto del suicidio è l’estrema protesta e l’estrema beffa del Bambino disperato. Chiudo la seduta con un contratto di non suicidio che ha il duplice scopo di mettere ancora più in evidenza la sua distruttività e di proteggerlo dalla aggressività retroflessa.

Come compito a casa gli suggerisco di riscrivere il sogno dal punto di vista di uno sceneggiatore- regista che abbia una visione positiva della vita. La considero una fantasia di ridecisione che può aprire a nuove possibilità. È sorprendente come con il sogno si può accedere molto rapidamente a nuclei profondi del copione che altrimenti sarebbero irraggiungibili, o richiederebbero mesi di lavoro, se focalizzassi e trattassi gli aspetti più lontani e rifiutati della personalità. È un modo per entrare direttamente nella difesa e utilizzarne l’energia.

 

L’aspetto “mostruoso” – l’incubo

Il sogno terrifico, l’incubo hanno sempre sollecitato la curiosità degli uomini e molte ipotesi sono state fatte sulla natura di queste esperienze notturne, spesso attribuite a forze misteriose e di natura superiore. Sono aspetti ancora più alienati della personalità. Li considero come il risultato di una elaborazione magica del bambino a contatto con i suoi vissuti di impotenza di fronte ad esperienze alle quali non può o non sa rispondere e reagire. È difficile spiegare come “soddisfazione allucinatoria di desideri irrazionali” questi tipi di sogni. La connotazione implicita nella concezione freudiana e che l’uomo è per “sua natura malvagio e che la società lo costringe alla morale” (Fromm 1951). Neanche condivido la posizione di chi ritiene che gli aspetti “negativi” della personalità vadano eliminati (Steiner 1979).

Le tecniche adottate da C. Steiner per neutralizzare il “Genitore Orco” o quelle usate da M. Goulding (comunicazione personale), hanno sicuramente un potente riscontro immediato a livello comportamentale, ma lo scopo ultimo della terapia è di eliminare le scissioni attraverso l’integrazione delle polarità. Se c’è qualcosa da eliminare vuol dire che mi è estraneo: la posizione di C. Steiner tende a deresponsabilizzare l’individuo, partendo dall’assunto che i bambini hanno poco scampo dai messaggi “pazzi” dei loro genitori. In ogni caso un adulto è in grado di riassimilare le ingiunzioni ricevute, senza per questo tagliare dei pezzi di sé. Niente è buono o cattivo di per sé.

Separare la realtà nelle due polarità proviene da ingiunzioni morali che tendono al perseguimento di un modello ideale di vita. Ma finché immagino un modello, sono nel mondo delle illusioni. Finché ho un’idea di buono e cattivo, lotto per il raggiungimento della meta ideale e quanto più è alta tanto più “mostruosa” mi appare la polarità da cui fuggo. È noto che l’entità della distanza tra l’oggetto desiderato e quello rifiutato, determina la gravità della scissione e quindi della patologia. Non c’è niente da rifiutare e niente da accettare, è la consapevolezza e non la morale la guida all’autoregolazione organismica.

F. Perls (1970) ricordava che dalle divinità siamo arrivati alle cause della natura e quindi al processo, ma un giorno, auspicava, “scopriremo che la consapevolezza è la proprietà dell’universo”. L’aspetto mostruoso, allora, va riassimilato all’organismo. È un adattamento, cioè un sistema difensivo e come tale contiene gli aspetti sani della personalità che, di fronte alla frustrazione e al pericolo, hanno scelto la sopravvivenza. L’energia non utilizzata nell’ambiente è stata retroflessa, ma è ancora disponibile se saprò trattare la difesa come aspetto creativo della personalità: mi ha permesso di vivere.

Nel tantrismo sono molto utilizzate le pratiche di meditazione che comportano l’identificazione con “divinità feroci” allo scopo di riassimilare quell’energia che viene proiettata e reintegrata alla personalità. La via che indichiamo al bambino è quella del divieto “non si fa”, e spesso è necessaria. Quella che possiamo proporre all’adulto è: “ sperimenta e scegli ciò che è utile al tuo sviluppo”.

Un giovane di circa 20 anni ha un sogno ricorrente nel quale sono presenti delle entità senza forma, degli “avvelenatori pazzi” che vogliono entrare in lui e distruggerlo. Ne ha molta paura e si sveglia in preda all’incubo. Anche nel ricordare il sogno comincia ad agitarsi e sembra che voglia scappare. Si identifica nella avvelenatore e incomincia a descriversi: “ Sono violento, voglio far male, voglio violentare le donne… uccidere mio padre… ho 10 anni, capelli da pazzo, sono freddo, sudato, non ho niente da perdere (si agita, il respiro è affannoso), sono impazzito perché non ho mai visto i miei genitori coccolarsi… papà la picchiava… voglio ucciderlo… voglio uccidere anche mamma e violentarla.” A questo punto perde il contatto con il ruolo nel quale è identificato e immaginariamente si pulisce per la violenza alla quale ha dato sfogo: “ un pezzo di vetro mi entra nel corpo, mi taglia tutto, è lui… il pazzo che me lo mette”. Gli chiedo di riprendere la drammatizzazione: “ Io sono il pazzo, sì, voglio uccidere, ti voglio uccidere, fare a pezzi… tu non mi fai vivere”, dice all’altra parte di sé. La rabbia è ancora contro se stesso, ma nella voce compare il dolore.

Terapeuta: “Vai oltre, fagli capire fino in fondo chi sei”.

Paziente: “ Io sono il pazzo (piange)… Sono spento, adirato… non voglio vivere…”. Emergono sentimenti misti di rabbia e di dolore.

Terapeuta: (rivolto all’avvelenatore pazzo) “ Chi si nasconde dietro di te?

Paziente: (singhiozzando) “Io sono piccolo, piccolo… piccolo… piccolo (continua come perso in un ricordo) … Voglio morire… non c’è nessuno quando nasco… nessuno… non mi sembra vero… (tossisce forte, quasi si strozza) Non voglio morire… Non voglio morire…”

Si agita, si strozza, ansima, si arrabbia, si blocca, piange, sembra che tutto il suo essere stia lottando tra la vita e la morte. È in contatto con i messaggi di copione che ancora lo paralizzano:  “non esistere, non essere bambino, non entrare in intimità”, vissuti attraverso il reale comportamento di genitori litigiosi che si separano quando è molto piccolo e ingigantiti dal tipico procedimento del “piccolo Adulto” che ha trasformato le frustrazioni in minacciose immagini animate: gli “avvelenatori pazzi” che oggi popolano i suoi sogni. Dietro di loro si nascondono la rabbia e il dolore del bambino per la mancanza di cure necessarie alla sua sopravvivenza. Sono in contatto con la profonda solitudine che ora sta vivendo. Lo tocco e contemporaneamente gli parlo. Gli suggerisco che le madri sono sempre presenti quando nascono i bambini. Si tranquillizza mentre continuo a tenere la mia mano sul suo petto, il respiro diventa più regolare. Con un lieve sorriso dice: “sento la voce di mia madre… la tua voce…”.

In questo momento l’analogia gli dà sostegno: il Bambino ne ha bisogno. Rifiutare quell’“avvelenatore” del sogno sarebbe stato come dire ancora una volta “no” a quel Bambino solo e impaurito. Dalle parti rifiutate, “criminali e pazze” è stato possibile recuperare i sentimenti di rabbia e di dolore. L’aggressività non diretta verso gli oggetti del bisogno è stata retroflessa e quindi è diventata patologica. Questo ragazzo nella vita reale continua a ferirsi in vario modo anche fisicamente, e pur avendo doti di intelligenza e creatività non trova una sua identità e autonomia dalla famiglia di origine che vive a tratti con estrema ostilità o con grande trasporto affettivo.

Nel sogno di un altro paziente l’immagine da incubo era rappresentata da un bambino con la testa di mostro, con “occhi terribili e cattivi”. Questo aspetto fu messo a confronto con la polarità rappresentata nel sogno dallo stesso paziente, terrorizzato per le insidie del “piccolo mostro”. Mentre procedeva nel dialogo drammatizzato, era possibile percepire il movimento di redistribuzione dell’energia che avveniva tra un aspetto della personalità e l’altro. Il potere, inizialmente concentrato tutto nel mostro, cominciò a passare nella povera vittima terrorizzata, è questa, via via che procedeva il dialogo, diventava sempre più assertiva, fino a fare precise richieste sui suoi bisogni, mentre l’altro perdeva gli aspetti minacciosi e violenti e cominciava a mostrare la sua fragilità e paura. Anche in questo caso la parte rifiutata e non riconosciuta come aspetto di sè, anziché essere combattuta, è stata utilizzata a vantaggio del paziente. Riassimilando il mostro minaccioso e violento, ha integrato maggiore decisione e assertività.

D’altra parte i sentimenti di paura della vittima portano allo scoperto la fragilità e il relativo bisogno di protezione. Ora i personaggi del conflitto possono sostenersi a vicenda. Quando si riduce la distanza tra le parti scisse, si prospetta la possibilità di un accordo dal quale tutta la personalità guadagna potere. Un’altra paziente sognò che il fidanzato la tradiva con altre donne. Mentre si aggirava smarrita in un luogo non precisato, la presenza di un fantasma minaccioso interruppe il suo sonno. Nel lavoro di identificazione il “fantasma” si presentò come l’immagine idealizzata di una regola morale. Era venuto per impedirle di vendicarsi dell’offesa ricevuta dal fidanzato. Il messaggio genitoriale “ solo i cattivi si arrabbiano” si è scontrato con il naturale desiderio di reazione, è la regola si è rafforzata assumendo le sembianze del “fantasma” che la paralizza e le impedisce di esprimersi.

Attraverso l’idealizzazione, la paziente mantiene viva una introiezione infantile che le impone di essere una bambina “buona e gentile”. Ne fa le spese anche la sua aggressività sana; infatti nel rapporto con il fidanzato reale e nella vita in genere è solita assumere la posizione di vittima. L’idea che il G1 sia una idealizzazione dei messaggi reali ricevuti dal paziente, attraverso un processo interno di trasformazione, secondo le indicazioni Holtby (1976), mi ha suggerito un espediente tecnico che a volte uso per separare i prodotti autogenerati dalle introiezione genitoriali. Faccio intervenire nella scena del sogno le figure dei genitori “reali”, e faccio riferire da loro, drammatizzate dal paziente, le differenze tra ciò che hanno comunicato e quanto il Genitore autogenerato ha prodotto.

In questo modo il paziente ridimensiona il modello e si riprende la responsabilità per il suo modo di essere. Un paziente di circa 50 anni, che continua a vivere con fantasie di libertà sfrenata, mentre di fatto è completamente immobile e passivo, riferisce un sogno nel quale un gruppo di poliziotti circonda la casa in cui si trova e dalla quale gli impediscono di uscire. Ciò avviene senza ragione apparente. Nella reidentificazione i poliziotti risultano essere “la regola senza ragioni”. I genitori introdotti nella scena si dimostrano molto meno esigenti e irrazionali. I loro messaggi sono del tipo “ Studia, diventa un bravo professionista, fai meglio di quello che abbiamo fatto noi”. Quello che si è perso nella trasformazione attuata dal Bambino è la logica dei messaggi genitoriali. Per lui sono incomprensibili e li vive come impedimenti generalizzati che coinvolgono interamente la sua esistenza. Traduce gli stimoli in una immagine fantasticata di prigione, dalla quale è impossibile evadere. Oggi combatte una guerra persa, perché lotta contro l’inesistente, contro un nemico senza corpo. Dai contenuti emersi attraverso il lavoro sui sogni riportati, mi sembra si possa concludere che l’aspetto idealizzato, il mostro, l’avvelenatore, il fantasma contengano un insieme di elementi condensati in un’immagine fantasticata, definibile come G1, prodotta dall’intelligenza magica, intuitiva, concreta, del Piccolo Professore che elabora il risultato dell’incontro tra i messaggi del Genitore, i bisogni e le frustrazioni del Bambino (B1).

Il lavoro di terapia si può focalizzare sul separare i diversi stimoli che hanno partecipato alla formazione dell’immagine terrifica. Quando ad esempio le figure dei geni “reali” vengono introdotte nella scena del sogno e i loro messaggi sono differenziati da quelli dei poliziotti che non sentono ragioni, come nell’esempio sopra riportato, di fronte alla chiarificazione emerge l’opera dell’A1 e il suo intervento creativo, contemporaneamente si fa strada la consapevolezza Adulta e, mentre l’A1 recede sullo sfondo, alla visione magica subentra l’esame di realtà. A questo punto è possibile accedere anche al bisogno del Bambino (B1) nascosto dietro l’immagine terrifica, una sorta di “adattamento complesso” al quale partecipano tutti gli elementi esaminati. Lo scopo è quello di mantenere in vita l’ingiunzione, e il rispetto del divieto è ottenuto attraverso la paura in questo caso autoalimentata.

 

Transfert nel sogno

Nell’ambito di questo studio che ha come suo filo conduttore l’idea che il lavoro sul sogno costituisca la via Maestra per raggiungere e reintegrare le parti alienate di sè, mi sembra che uno spazio particolare meritino i sogni di transfert nei quali è presente l’immagine idealizzata del terapeuta.

Perls (1977) riconosce un grande valore alla teoria freudiana del transfert, visto come trasferire sulla figura del terapeuta “una serie di risposte emotive e di atteggiamenti” già vissuti nei rapporti con una o più persone significative del suo passato, quasi che il paziente “agisca una forma di delirio” per il quale non è in contatto con il terapeuta, ma con una creazione immaginaria che gli impedisce la relazione con la persona reale. Tuttavia, ritiene che, piuttosto che dalla ripetizione di vissuti passati dimenticati, il transfert derivi dalla “mancanza di essere” del paziente, dovuta a situazioni incompiute che reclamano soddisfazione. Non avendo raggiunto la sua capacità interna di appoggio, continua a rivolgersi all’esterno per essere sostenuto. Il terapeuta è investito in modo più o meno grande di sentimenti positivi o negativi, via via che rappresenta sempre più ciò che manca al paziente (Perls 1977). In un sogno appariva la mia immagine di terapeuta: molto alto, di spalle, silenzioso, vissuto come una “meta spirituale irraggiungibile”. Il lavoro si svolse in due fasi. Nella prima fu imbastito un dialogo Io-Tu, terapeuta-paziente, durante il quale attraverso il contatto visivo e la consapevolezza dei vissuti attuali nei miei confronti, il paziente rientrava nel “qui ed ora” del rapporto, sollecitato, come era, a scoprire le differenze tra l’idealizzazione e la persona reale. In un secondo tempo ci occupammo della sua “mancanza di essere”, cioè della situazione incompiuta che artificiosamente veniva completata per mezzo dell’immagine idealizzata. Attraverso la ridensificazione con la figura del terapeuta comparsa nel sogno, il paziente si definì “ distaccato, superiore… come di pietra… uno che non si abbassa e non si fa corrompere… Io sono là, possono guardarmi, ma sono inavvicinabile”.

Sollecitato a contattare i suoi sentimenti, dapprima riferì di sentirsi tranquillo, calmo: “vivo un senso di pace”, disse. Dopo un po’ la sua apparente calma e tranquillità si trasformarono in un profondo senso di vuoto. La “pace” era soltanto una facciata. Aveva anestetizzato i suoi sentimenti per evitare una profonda sofferenza. Ora combatteva il senso di “nullità”, la polarità alla quale, nelle fasi di formazione del copione, aveva contrapposto una fantasia che gli permettesse di sopravvivere. Non può tollerare il vuoto che sperimenta ogni volta che viene lasciato solo. Si costruisce una immagine di sé compensatoria che oggi proietta sul terapeuta. Il piccolo “nano” si inventa di essere un gigante ancora più grande e potente di quelli che popolano il suo mondo. Ma è solo una bugia per la quale paga con la sua vita incoerente alla ricerca di cose “importanti”. Non può sfuggire ai “panni sporchi nascosti dentro un cesto” che nel sogno nasconde accuratamente per impedire che il terapeuta idealizzato li veda.

In quegli oggetti rifiutati c’è tutta la sua vitalità repressa, ci sono i suoi sentimenti di fragilità e di paura. Entrando in quella “sporcizia” ritrova il Bambino bisognoso: “sporco” ma vivo. Lì c’è energia per riempire i vuoti: sarà un lavoro lungo e faticoso. Berne sosteneva che il primo obiettivo è curare. Parafrasando mi sembra di poter dire “prima occupati dei vuoti”, che è come dire “occupati di ciò che manca” perché è quello che produce sofferenza. I vuoti del paziente L. erano veramente tanti. In particolare aveva difficoltà a contattare la sua fisicità, fino al punto di spaventarsi quando sensazioni corporee “troppo forti” si associavano a momenti emotivi della sua terapia. Finalmente fece un sogno in cui io, terapeuta, mi trovavo nella sua casa e nudo facevo la doccia. Il sogno era molto articolato ma tutto, per lui, passava in secondo piano: voleva sapere il significato della mia presenza. Gli rimandai la risposta: “Non mi so guidare, nel sogno ti vivo come un genitore, ma diverso da quello che ho avuto”. La sua capacità di auto-appoggio veniva proiettata sul terapeuta idealizzato.
Terapeuta: “essendo me, quali sono le tue caratteristiche?”

Paziente: “mi muovo in modo particolare, osservo fotografando… uso poche parole significative, intervengo al momento opportuno”

Terapeuta: “ Com’è la tua vita?”

Paziente: (si distrae, perde il contatto, poi compare l’immagine di me sotto la doccia)… “Mi muovo liberamente, tocco il corpo, gioco con mani e piedi… sento il sangue che circola… (uscendo dal ruolo)… sento quello che mi vien voglia di fare dopo: incontrare una donna…”.

Dopo un po’ gli chiedo di sintetizzare il messaggio del sogno: “ Esponiti di più, …ma non riesco a farlo”

Terapeuta: “mi sembra che nel sogno incominci”

Patente: “sì, ci sono cose che sento nuove”.

La nudità del terapeuta è vissuta come permesso a potersi esporre, aprirsi con semplicità e soprattutto con fiducia. Potersi identificare nella figura idealizzata è un passo importante per riappropriarsi della proiezione e prendere contatto con i propri bisogni. Spesso il paziente è così lontano dall’immagine idealizzata che neanche “osa” recitarne il ruolo o, come dice Kohut (1976), “sostenere di essere tutt’uno con l’immagine dell’analista idealizzato.”

Sogno e azione

Prima di concludere questo intervento che ho centrato soprattutto sulla reintegrazione degli aspetti mancanti o repressi della personalità, voglio ricordare che il sognare, come il pensare e l’immaginare, possono essere considerate delle azioni incomplete: “un comportamento privato” (Naranjo 1973). Ma ogni aspetto interno ha un riflesso esterno. Il mondo transazionale è la manifestazione nell’ambiente di quanto si verifica nella persona nel suo dialogo interno, che è come dire che l’aspetto relazionale è la rappresentazione esterna del livello intrapsichico, o ancora in altri termini, che non c’è differenza tra la realtà che l’individuo vive nel sogno e quella che vive da sveglio. Cambia il linguaggio e il livello di energia che, essendo più alto, durante la veglia comprende l’azione. In questa prospettiva, un modo ulteriore per completare “gli affari incompiuti”, le gestalt aperte, manifestate dal sogno, è quello di focalizzare uno o più elementi e metterli in relazione all’ambiente, rappresentato dal gruppo, usato come bersaglio proiettivo.

Il metodo dell’esperimento nel gruppo può essere una via molto diretta per cogliere il messaggio del sogno, dando attenzione, ad esempio, alle retroflessioni che fa il paziente durante il suo racconto, sotto forma di contrazioni, gesti trattenuti o automanipolazioni. In quanto azioni incompiute, possono essere completate all’esterno.

Possiamo quindi estraniarci dal contenuto e portare l’attenzione del paziente sul fatto che si morde le labbra mentre racconta il sogno. Suggerendogli di aprire la retroflessione, con modalità gestaltiche, verso qualcuno del gruppo, viene facilitato il contatto con quanto, in maniera inconsapevole, sta vivendo. Stiamo lavorando comunque con il sogno. In una visione olistica il contenuto del sogno non è separato dalle azioni e dai sentimenti che lo accompagnano.

Procedendo nell’esperimento può venir fuori, attraverso il contatto con la sua esperienza corporea connessa con il gruppo, “il messaggio del sogno”, che nel caso specifico potrebbe essere del tipo “sono arrabbiato ma non posso permettermelo”, caratteristico della persona che assume un adattamento passivo e ferisce se stessa piuttosto che correre il rischio di comportarsi in maniera assertiva. Concludendo, le sollecitazioni che mi vengono dal lavoro sul sogno sono veramente tante. Ho pensato all’importanza dell’ambiente dove si svolge e alle indicazioni che fornisce ai fini della determinazione dei confini entro i quali l’Io si muove e quindi dei messaggi di copione che li definiscono. Alle implicazioni diagnostiche che ne possono derivare a seconda che il sogno sia ricco di elementi vivi o piuttosto di oggetti inanimati. A come si può riempire il deserto emotivo del sogno adottando la fantasia. Ho pensato agli elementi culturali molto profondi che sono contenuti nei personaggi o negli ambienti. Sono stato stimolato a considerare l’ampio capitolo che occupa il sogno negli insegnamenti spirituali e nelle pratiche di meditazione. E naturalmente ai modelli dell’Analisi Transazionale. Posso rinvenire nel sogno gli aspetti Genitoriali e quelli del Bambino e metterli a confronto, scoprire il nucleo del copione e procedere verso la ridecisione, usare il triangolo drammatico come ama fare M. Goulding, esplicitare i ruoli e portare fino in fondo la “battaglia” tra Persecutore e Vittima, esplorare i sentimenti di ricatto e così via.

Ma non voglio dimenticare, per il fatto di aver approfondito alcuni aspetti teorici, che all’inizio di questo intervento ho condiviso la posizione di F. Perls, secondo il quale il sogno rappresenta l’esistenza stessa della persona tradotta in termini artistici, e come l’arte, l’esistenza è ricca, varia, indefinibile. Si può svolgere su diversi stati di coscienza, è solo alcuni di questi vengono contattati abitualmente. E per finire voglio ancora ricordare F. Perls. Pensiamo ai sogni come a sogni notturni e non ci rendiamo conto che dedichiamo le nostre vite ai sogni “di gloria, di utilità, di essere migliore o qualunque altra cosa sogniamo” (F. Perls 1970). La meta di ogni religione, insegnamento, o di una buona terapia è “il risveglio”. Ritornando ai propri sensi, risvegliandosi da un proprio sogno, specialmente se questo è un incubo, incominciamo a vedere, sentire, sperimentare i nostri bisogni, a trovare finalmente soddisfazione, piuttosto che recitare ruoli. Questa idea di risveglio consiste semplicemente nel diventare reale, contrapposto al permanente autoinganno di cercare risultati impossibili (F. Perls 1970).

Conclusioni

Il sogno è un messaggio esistenziale presentato in forma artistica. Il suo significato va al di là del simbolo e appartiene a quell’unica persona che l’ha sognato. Le parti alienate e rifiutate della personalità sono ricche di potenziale e pertanto vanno reintegrate. La vita del sogno non è diversa da quella diurna, cambia il livello di energia. È un’unica esistenza che si manifesta in forme diverse.