Il Gioco: effetto di bisogni insoddisfatti e confusioni cognitive
Pubblicato in: Neopsiche – Anno 15 n.22, 1998
“Il gioco è la manifestazione di un unico programma esistenziale del quale contiene gli elementi costitutivi. Chi è coinvolto in un gioco vive manifestazioni esplicite del proprio copione, di cui il gioco rappresenta il ‘come’ .”
Premessa
Nella teoria dei giochi, così come formulata in “A che gioco giochiamo”, Berne propone diverse possibilità di analisi e considera, pur non esplicitandolo, sia gli aspetti funzionali sia quelli strutturali della personalità. Quindi, da un lato descrive i giochi attraverso comportamenti e modelli relazionali e dall’altro si occupa dei contenuti intrapsichici quando, ad esempio, attraverso l’analisi dei vantaggi psicologici, mette in relazione il comportamento con gli aspetti psicodinamici.
La visione più complessa della prima opera berniana sembra semplificarsi nelle elaborazioni successive. In “Ciao… e poi?” (1972) la definizione di gioco, grazie anche all’introduzione del concetto di “scambio“, evidenzia soprattutto gli aspetti relazionali che vengono standardizzati nella formula G, modello ultimo assunto da Berne per definire un gioco. Probabilmente ciò deriva anche dal fatto che Berne tende a delimitare aree ben specifiche di intervento clinico, lasciando all’analisi del copione soprattutto le dinamiche interne e a quella del gioco il livello relazionale.
Tuttavia non bisogna dimenticare che il gioco è la manifestazione di un unico programma esistenziale del quale contiene gli elementi costitutivi. Ne deriva che chi è coinvolto in un gioco sta vivendo anche manifestazioni specifiche del proprio copione. Il gioco rappresenta il “come”, è la parte emergente di nuclei più profondi che si manifestano nelle transazioni, mentre il copione è il programma, la mappa organizzativa della personalità.
Il gioco può essere considerato una particolare, drammatica messa in scena del copione. In effetti, è mancato un collegamento tra i diversi modi suggeriti da Berne per analizzare i giochi e a me sembra che la formula G abbia messo in ombra le altre importanti intuizioni berniane. Di fatto si è eccessivamente semplificata la complessità del lavoro sul gioco, a volte ridotto ad una mera attribuzione di slogan e “magliette”, che ha sminuito il potenziale di un’analisi che può spaziare dagli aspetti transazionali ai contenuti psicodinamici, a favore di una terapia basata sul controllo sociale.
Aspetti del tornaconto
In A che gioco giochiamo Berne dice che un gioco si differenzia da procedure, rituali e passatempi soprattutto per due caratteristiche:1) la sua qualità ulteriore e 2) il pagamento.
Questi elementi sono rimasti costanti anche nelle teorizzazioni successive. Per quanto riguarda il suo aspetto relazionale, il gioco viene costruito attraverso transazioni e sono proprio le transazioni ad avere un contenuto ulteriore. Si tratta di una comunicazione che che contiene un trucco, un inganno che si manifesta quando il messaggio nascosto diventa esplicito, perché chiaramente espresso. Cadono il velo dell’inconsapevolezza e il residuo controllo Adulto ed ha il libero sfogo l’energia dello stato dell’Io Bambino o Genitore. La perdita del controllo precipita il giocatore verso il pagamento, cioè una conclusione che “ha un elemento drammatico e non solo emozionante”. In Ciao… e poi? Il tornaconto viene definito come la ricompensa psicologica del gioco, cioè il finale a cui il giocatore tende e in A che gioco giochiamo, parlando dello ‘scopo’ Berne specifica che i giochi possono essere costruttivi o distruttivi. Così detto sembrerebbe che nel caso del finale distruttivo, ci sia un nascosto intento a cercare il malessere e la patologia.
Quello che propongo è di considerare la caduta nel pagamento o tornaconto come una conseguenza non predeterminata, ma piuttosto come effetto di ‘ignoranza‘, cioè di apprendimento inadeguato o carente per cause ambientali e per limiti naturali presenti nel processo decisionale del bambino. Ignoranza e limiti ai quali nel tempo non è succeduto un efficace processo di apprendimento o di riapprendimento. Da questo punto di vista, il gioco può essere considerato come il risultato di spinte compulsive e di coazione a ripetere. Ritengo che il comportamento ripetitivo sia un tentativo implicito di cambiare il finale e che la ripetitività stessa contenga in se volontà di cambiamento. E’ anche vero però che nell’azione compulsiva mancano linee guida alternative o perché ancora non apprese o perché anche se apprese, il timore del rischio insito nel nuovo possibile comportamento, riporta sempre allo stesso, noto finale. Il Goffo pasticcione cerca il perdono, questo è lo scopo del suo maldestro modo di fare, ma cerca male, con modalità tali che alla fine gli procureranno ulteriori rimproveri e frustrazioni.
C’è una implicita svalutazione e poca fede nella capacità di crescita in una concezione che guarda e insiste a sottolineare gli aspetti distruttivi della personalità. A volte diciamo : ” vuoi farti male, non vuoi guarire”, ma non bisogna confondere questa forma provocatoria di confronto fatta dal terapeuta, con una reale intenzione del paziente, il quale, di fatto, non ha imparato nuove vie o ne ha ancora paura. Anche nel gioco “Si …ma”, la signora che chiede aiuto ottenendo infine l’impotenza del terapeuta, piuttosto che un effimero “trionfo” sta cercando, e questo è il suo desiderio profondo, qualcuno che sia finalmente in grado di rassicurarla che può farcela e non le risponda sempre nella stessa maniera banale.
Il bisogno come sfondo del Gioco
La prima indicazione che deriva da quanto detto è di considerare i ‘motivi‘ per cui si gioca, riportati da Holloway come comunicazioni personali dei Goulding, non nel significato di motivazioni a giocare ma come conseguenze di interruzioni al naturale processo di crescita. Sicché evitiamo l’intimità, otteniamo carezze negative, confermiamo copione e posizioni esistenziali, strutturiamo il tempo nel gioco e lo utilizziamo per tenere l’altro agganciato, come effetto e non perché abbiamo 1’intenzione di raggiungere questi specifici risultati. La prospettiva proposta permette ulteriori valutazioni e più ampie possibilità di intervento clinico.
Poiché il gioco è manifestazione, in un limitato arco di tempo, della organizzazione copionale, di questa contiene la traccia e ne esprime i nuclei essenziali. Il gioco, come il copione, è il risultato di un conflitto tra bisogni e aspirazioni che sono in opposizione a divieti e impedimenti i quali provengono non solo dall’ambiente, ma anche dai limiti individuali di cui ogni persona è portatrice. Diventa quindi rilevante analizzare il messaggio ulteriore del gioco e scoprire in esso, oltre alla svalutazione, anche i bisogno originario che non venne soddisfatto, lasciando cosi una Gestalt aperta che reclama completamento.
Se sullo sfondo del gioco c’è il bisogno, il tornaconto finale non ha solo contenuti di sentimento parassita con scopo manipolativo secondo la concezione berniana, ma contiene anche forti elementi di frustrazione connessi al mancato soddisfacimento. Sentimenti dolorosi, che appartengono alla parte sana della personalità, al Bambino che prova a cambiare e non riesce. In pratica manca il sostegno di un Adulto che proponga nuove alternative.
Ad esempio, il tornaconto di rabbia in un gioco di tipo ‘Burrasca‘, può essere un sentimento parassita vissuto dal Bambino frustrato che ancora una volta non realizza il bisogno e proietta sul partner la responsabilità della sua insoddisfazione. Ma dietro la rabbia può esserci anche un sentimento naturale di dolore per il bisogno frustrato, sentimento che in prima istanza non viene colto nel tentativo che fa il Bambino di ottenere ciò di cui ha bisogno attraverso la rabbia e la minaccia. Coprire il dolore con la rabbia è effetto di distorsioni cognitive e di meccanismi difensivi che alla fine fanno dimenticare le ragioni stesse per cui furono messi in atto. Un pensiero del tipo: “con la rabbia si ottiene miglior risultato”. E’ utile allora, per la terapia dei giochi, riferirsi anche ai bisogni che si nascondono dietro le deviazioni patologiche.
Per bisogno intendiamo di solito, in maniera abbastanza indefinita, quell’insieme di esperienze che comprendono il mondo degli istinti legati alla sopravvivenza, delle pulsioni legate al piacere, delle relazioni oggettuali e relative estensioni al livello sociale, fino ai bisogni evolutivi e spirituali. Secondo la psicoterapia della Gestalt l’organismo cresce e si evolve attraverso la soddisfazione di bisogni successivi, conseguendo in tal modo la sua realizzazione sia in termini biologici che di completamento del progetto esistenziale. Se intervengono interruzioni nel naturale processo di sviluppo, l’organismo soffre e il bisogno insoddisfatto produce uno stato di carenza attraverso il quale continua a reclamare attenzione, magari organizzando un sintomo o comportamenti che appaiono come distruttivi.
Fissazioni cognitive
Poiché l’obiettivo di ogni bambino è di soddisfare i propri bisogni, di fronte agli incidenti evolutivi e nel confronto con l’ambiente cerca alternative, interpreta i propri limiti naturali e quelli impostigli dall’esterno attraverso interpretazioni irrazionali e generalizzate della propria esperienza, che fissa in nuclei cognitivi intorno ai quali costruisce la sua personalità. Questa infine, si manifesta nel carattere e nel piano di vita che il bambino adotta. II nucleo cognitivo sarà elemento fondante e costitutivo del giochi psicologici che imparerà ad agire e anche il tornaconto sarà conseguenza di una fissazione cognitiva.
A questo punto diventa rilevante nell’analisi del gioco rendere consapevole, oltre al bisogno, anche la fissazione cognitiva sottesa al tornaconto.
Per quanto riguarda il bisogno, voglio precisare che il sentimento parassita che emerge alla fine di un gioco, è conseguenza di un’implicita interruzione nel ciclo di contatto, ciclo che porterebbe naturalmente il bambino alla soddisfazione, se l’energia aggressiva positiva avesse raggiunto senza impedimenti la conclusione del processo naturale.
Per chiarire invece la fissazione cognitiva utilizzo l’esempio di una personalità di tipo schizoide, definito nella psicologia degli Enneatipi (per un maggior approfondimento rimando al libro di C. Naranjo ‘Carattere e nevrosi’,1996) come “avaro-distaccato”. I giochi di coppia di questa persona portano regolarmente a finali a seguito dei quali si isola, interrompendo la relazione e confermandosi che in fondo e meglio star solo, rifugiarsi nelle fantasie e soprattutto sentirsi autonomo e autosufficiente. Di fatto si basa sull’idea irrazionale che, lasciandosi andare al rapporto, vivrebbe uno “svuotamento catastrofico”. Il nucleo cognitivo intorno al quale ha organizzato la propria visione dei rapporti è che nella relazione c’è più da perdere che da guadagnare, quindi meglio organizzarsi la vita da solo, in forma ‘autarchica’. Come conseguenza di antiche esperienze ha tratto la conclusione che stare con una compagna fa spendere troppa energia con poco ritorno, per cui alla fine si ritrova ‘scarico’ e in uno stato di esaurimento.
Il Bambino però non ha mai rinunciato al contatto caldo con la madre, scene protocollari lo ricordano, una madre che ha vissuto distaccata, lontana e più concentrata sui propri problemi che attenta al figlio. La carenza di caldo affetto lo ha portato a costruirsi idee irrazionali e compensazioni illusorie che coprono il conflitto tra bisogno mai dimenticato, a cui non può rinunciare, e frustrazione del bisogno a cui succede, nei giochi attuali, un tornaconto di isolamento, non cercato per strutturare il tempo o per evitare intimità, ma effetto di una confusione cognitiva.
Ancor oggi questa confusione lo rende incapace di abbracciare spontaneamente una donna, visto che vive lo stesso impedimento sperimentato nell’abbracciare la madre che con il suo distacco non glielo permetteva. E’ un impegno troppo dispendioso, non paga. Quindi oggi ci riprova, ma ricade nell’antico meccanismo e rinuncia isolandosi.
Riporto ora l’esempio di un gioco tipico del carattere definito nella psicologia degli Enneatipi ‘indolente – iperadattato‘, assimilabile ad una personalità di tipo dipendente. Nei giochi di coppia, Mara finisce con sentimenti di delusione e rabbia, connessi al bisogno di essere rassicurata. Inizia il rapporto sessuale con molto trasporto ma, quando l’eccitazione sale, tende a reprimerla. Il partner si blocca e lei vive un’ esperienza ripetitiva: sente il bisogno di essere rassicurata che il compagno non l’abbandoni e lo mette alla prova. Lui però non regge e di fronte alla chiusura di Mara si ritira.Ancora una volta il tornaconto è di delusione e rabbia: si conferma che gli uomini sono incapaci di sostenere e rassicurare. La fissazione cognitiva è del tipo : “non posso avere bisogni, solo se sono utile valgo qualcosa” ed il bisogno resta sempre lì, insoddisfatto. Ci riproverà e il risultato sarà lo stesso, non perché cerchi il tornaconto, ma perché resta irrisolto il nucleo cognitivo. La prova alla quale sottopone il partner, che per lei sarebbe la fine dell’incubo, ha un elemento di irrazionalità così forte che spiazza completamente il compagno, il quale diventa passivo e incapace di reagire. “Sei un debole inetto” gli grida, e con la forza dello ‘scambio’ l’antica ‘idea pazza’, per cui solo se si rende utile vale qualcosa e l’altro accetta di starle vicino, prende il sopravvento incanalando 1’energia della Bambina verso una conclusione che continua a non soddisfare il vecchio bisogno di rassicurazione.
Le fissazioni cognitive sono nuclei intorno ai quali si costruiscono mappe complesse, elementi costitutivi del carattere che ricordano il concetto di credenze. Di queste hanno gli aspetti irrazionali e la tendenza alla generalizzazione. Sono però più articolate, ed è possibile individuarne diverse categorie che si differenziano per ogni tipo di personalità. Nella psicologia degli Enneatipi, la caratterologia che proviene dall’Enneagramma, le fissazioni vengono definite come strutture cognitive intorno alle quali si forma il carattere.
Gioco e carattere
In A che gioco giochiamo? Berne, oltre a mettere le basi e a sviluppare una delle aree più originali della lettura del comportamento umano, propone una vera e propria galleria di caratteri. Povero me, Goffo pasticcione, Ti ho beccato… si profilano con la vividezza di personaggi teatrali. Dei giochi dà definizioni, classificazioni, individua tratti e caratteristiche del giocatore, di questi descrive i comportamenti e ne sottolinea la fissa ripetitività, tutti aspetti che definiscono il carattere nella sua accezione corrente, inteso quindi come un modo ripetitivo e stereotipato di essere e comportarsi. In Ciao… e poi? Definisce la “maglietta” una difesa caratteriale e in Principi di terapia di gruppo (1966) dice testualmente: “sia la formazione del carattere, sia la psicopatologia derivano da decisioni consapevoli prese in età precoce”, stabilendo in questo modo una chiara relazione tra carattere e copione, entrambi risultato di un processo decisionale. Questa relazione permette il ponte per integrare alla teoria dei giochi e del copione, la teoria e la prassi della Psicologia degli Enneatipi che, pur provenendo da una antica tradizione, ha molti punti in comune con la concezione analitico transazionale della personalità e in più ha sviluppato, grazie al lavoro pluriennale di C. Naranjo, una vasta e complessa mappa di caratteri, a partire dalle nove tipologie previste nell’Enneagramma. Ho già trattato questo argomento in altri articoli e me ne occuperò in prossimi lavori.
Nella coppia
Se è vero quanto proposto, che il gioco ha implicita la ricerca della soddisfazione di un bisogno, vi sono conseguenze anche nel lavoro con le coppie. É quindi utile, per sbloccare il meccanismo ripetitivo del gioco e per eliminare il tornaconto, esplorare i nuclei cognitivi e dietro questi cogliere il bisogno. L’analisi del gioco di coppia può svolgersi in due direzioni: utilizzare le tecniche classiche, focalizzandosi sugli aspetti patologici della relazione, oppure centrare l’intervento sul “crescere insieme”.
L’idea guida è di facilitare un insight che faccia dire: “ma lei ha proprio quello che mi manca, lui ha proprio quello che sto cercando con tanta difficoltà!”. Nella complementarietà della coppia entrano in relazione parti della personalità che abitualmente vengono allontanate da sé e proiettate sul partner che, proprio perché manifesta questi aspetti, viene rifiutato. Il compito, difficile ma nello stesso tempo arricchente, è di integrare le parti alienate della personalità. Il compagno può essere visto come ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni o come mezzo per accrescere la propria consapevolezza e integrare le parti carenti di sé. Quindi la complementarietà può servire sia ad alimentare il gioco Persecutore – Vittima, sia a favorire la crescita.
Poiché non possiamo rinunciare totalmente a quanto ci venne vietato o noi stessi ci vietammo, sembra quasi che cerchiamo una persona che possegga le nostre parti mancanti, offrendoci in tal modo una forma paradossale di compensazione, e la scegliamo come compagno di vita. Il rifiuto per le parti alienate della personalità e il bisogno di integrare ciò che manca, sostiene l’ambivalenza desiderio-rifiuto.
Ogni volta che condivido queste possibilità di valorizzare il lavoro con la coppia, mi sembra di trattare temi scontati. Certo c’è il discorso sulla proiezione, sulla possibilità di integrare le parti proiettate e tuttavia resto veramente colpito quando, durante l’analisi del copione di uno dei due partners, nella fase ridecisionale, la nuova decisione prevede comportamenti e modi di essere che sono caratteristici dell’altro. Sono proprio quei modi e quei comportamenti rifiutati nel partner e che sono alla base dei giochi di coppia, quelli di cui si sente il bisogno e di cui ci si vuole riappropriare nei momenti di consapevolezza e spontaneità che accompagnano un processo ridecisionale.
Riporto l’esempio di una coppia: Cinzia tende al perfezionismo e vive nello sforzo e nell’impegno costante di ottenere cose che al fondo pensa di non meritare. Il divieto a “lasciarsi andare” non le permette di chiedere o ricevere amore: deve guadagnarselo. Disprezza il marito che considera un incapace e questi, d’altro canto, lascia alla moglie ogni responsabilità e non si occupa degli oneri quotidiani che riguardano la casa e la famiglia. Giorgio, d’altra parte, “deve” essere amato, “mi è dovuto perché sono stato provato, ferito, è come se avessi acquistato un diritto… pretendo di essere considerato… che mi diano”. A differenza della moglie che si sente in debito, “colpevole” per aver ricevuto molto, lui si sente in credito: gli hanno dato poco. Lei chiede solo quando la misura è colma, allora diventa un diritto e poiché è giusto, può pretenderlo. Lui non chiede perché sarebbe un’ulteriore umiliazione. La decisione che Giorgio ha preso nell’infanzia è ancora attiva oggi nella coppia: faccio a meno di te, mi ritiro e così ti punisco.
Nel momento della ridecisione il Bambino protesta, piange, reclama i suoi diritti, questa è proprio la modalità che utilizza la moglie con lui, quando esasperata perché ancora non riceve, tenta di scuoterlo e tirarlo fuori dal suo muto rancore. Giorgio si rende conto che se avesse protestato come oggi vede fare alla moglie, avrebbe ottenuto di più. Piuttosto che assecondare il “gelo” della madre, l’avrebbe scossa e distolta dal suo distacco. D’altro lato Cinzia, ridecidendo, scopre che se smette di protestare ed esigere da se stessa e dagli altri può ricevere amore e attenzione. “Non devo guadagnarmelo con sforzo. Sarò più silenziosa, anche più passiva e rilassata, voglio imparare a delegare e a permettere che altri facciano al mio posto”.
Che strana storia, sembra davvero che si siano incontrati perché l’uno offra all’altra la possibilità di apprendere, di crescere insieme.
Non possiamo rinunciare totalmente a quello che ci manca. Peccato che il partner, che possiede ciò che noi non abbiamo, a volte ne abbia talmente tanto e lo viva in maniera così esagerata che è proprio difficile accettarlo.