L’enneagramma e il carattere. Tra struttura di personalità e via spirituale.

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L’enneagramma e il carattere. Tra struttura di personalità e via spirituale.

“Quando ci si apre alla comprensione del proprio funzionamento psicologico, viene facilitato anche lo sviluppo spirituale…non possiamo godere della luce pura del diamante senza ripulirlo dalle incrostazioni che lo appannano”.

 

Introduzione

Conoscere gli aspetti limitanti della personalità ci permette di accedere agli stati superiori, della mente. L’organizzazione dei nostri copioni di vita è frutto dell’incontro del bambino con l’ambiente in cui nasce. I messaggi e i modelli con cui viene a contatto, filtrati dalla sua comprensione dei fenomeni, costruiscono la mappa esperienziale che lo caratterizza come individuo unico tra gli altri. Così, apparentemente senza storia, nato da un evento umano, si prepara a percorrere un tempo che appare come l’unica maniera evidente del suo esistere. Il modello che si è dato diventa un abito e, come una pelle, gli si attacca addosso. A questo adattamento attribuisce valori assoluti: si identifica nel ruolo che si è scelto. Esiste in quanto può riconoscersi nel personaggio e dimentica che lo costruì per sopravvivere alle carenze e ai rischi in cui s’imbatté da bambino. È proprio attraverso le identificazioni che attiva l’attaccamento al mondo del relativo e perde il contatto con la natura effettiva del suo essere.

La personalità soppianta l’essenza e i nostri comportamenti diventano ripetitivi, stereotipati. Diminuisce la creatività foriera di incertezze. Governati dall’abitudine e dalla paura del diverso, finiamo con l’essere come un attore che recita un ruolo in cui dimentica se stesso, rinchiudendosi in una gabbia dove azioni, pensieri e modelli emozionali sono sempre uguali, e impoveriscono l’esistenza. Più ci limitiamo, più crescono quelle stesse paure che stiamo evitando e, paradossalmente, aumentano disagi e malessere. Diventiamo bersaglio impotente di esperienze negative, a volte drammaticamente coinvolti nel dolore e nella sofferenza. Se non si è spenta del tutto la fiammella vitale cerchiamo aiuto e, tra le strade possibili ci si può rivolgere alla psicoterapia, non solo per curare sintomi, ma con una più segreta speranza di trovare risposte a domande angoscianti del tipo: “chi sono, che faccio a questo mondo, qual è il mio destino”.

 

L’approccio Gestaltico

Come terapeuta della Gestalt mi sono formato a una concezione e un rapporto con il paziente che mette in primo piano la crescita personale. Fritz Perls sviluppò un modello terapeutico più focalizzato sulla salute mentale che non sulla patologia. Il suo ideale fu l’uomo consapevole, capace di prendere su sé stesso la responsabilità della propria esistenza e di calarsi pienamente nelle esperienze che vive, evitando la fuga in modelli del passato e la proiezione in fantasie illusorie. Quest’attitudine da sola produce cambiamento. Perls fu molto influenzato dalle tradizioni orientali, come appare in alcune tecniche che lui stesso elaborò e che suoi discepoli, primo tra tutti Claudio Naranjo, continuarono ad approfondire, arricchendo molto il repertorio della psicoterapia. Ricordo tra tutte il continuo di consapevolezza, che considero un po’ l’emblema della terapia gestaltica.

È allo stesso tempo una prassi terapeutica e una filosofia esistenziale. Nel continuo sono attivi due fattori: da un lato la concentrazione e dall’altro l’osservazione della mente in movimento, cioè l’esperienza che si manifesta attraverso pensieri, sensazioni ed emozioni che, attimo dopo attimo, si affacciano alla coscienza. É molto evidente l’influenza di forme meditative che provengono dalle tradizioni Vipassana e Vedanta, in cui la concentrazione che facilita lo stato senza pensieri, e quindi la condizione di vuoto, si associa  all’osservazione dei fenomeni prodotti dai sensi e dalla mente stessa. Lo scopo delle tecniche orientali è quello di produrre lo stato meditativo, condizione che si trova al di là dei limiti posti dall’ego. Anche nel continuo di Perls i fenomeni mentali ottengono attenzione focalizzata. Concentrazione è, ai fini terapeutici, l’emergere di quanto è represso o sconosciuto che può attivare un’espansione della coscienza che produce consapevolezza e facilita la chiusura di Gestalt incomplete, bisogni o insight che siano, con la possibilità di contattare nell’immediato la naturale saggezza organismica. L’obiettivo della Gestalt è di operare sul relativo, quindi sul disagio quotidiano, ma l’ambizione è più elevata.  L’interesse non è rivolto solo agli impedimenti nel qui ed ora e alla cura del sintomo. Nella prassi terapeutica trattiamo con la consapevolezza che si interrompe quando ci imbattiamo nei conflitti e negli evitamenti difensivi dinanzi ai quali la mente egoica si paralizza, senza alternative, bloccata com’è dalla paura di uscire dai limiti strutturati che la persona si è data, costruendo il proprio adattamento caratteriale.

Diverso è il progetto delle tradizioni spirituali la cui meta è il superamento dello stato ordinario della mente. D’altro lato è proprio a partire dalla mente egoica che è possibile scoprire come liberarla: se conosciamo i modi in cui ci limitiamo, possiamo trovare le vie di uscita. Le interruzioni della consapevolezza sono resistenze al libero fluire dell’esperienza e caratterizzano specifiche organizzazioni di personalità su cui si focalizza la psicoterapia quando si rivolge al profondo, investigandone la struttura e le leggi che lo governano.

Quando ci si apre alla comprensione del proprio funzionamento psicologico, viene facilitato anche lo sviluppo spirituale. Usando una metafora, non possiamo godere della luce pura del diamante senza ripulirlo dalle incrostazioni che lo appannano. Nel buddhismo tibetano il diamante, il vajra indistruttibile, è assimilato alla mente non condizionata e, come per il diamante, la saggezza naturale, la mente pura, viene scoperta quando è liberata dalle confusioni dualistiche che la contaminano e la nascondono, impedendole di manifestare la pienezza delle sue qualità. Quindi il lavoro sulla personalità limitata, sull’ego, caratteristico della psicoterapia e quello rivolto alla crescita spirituale sono su un continuo e non soltanto in progressione, l’uno dopo l’altro, ma tra loro interconnessi.

Nel mio lavoro di terapeuta e di formatore ho integrato diverse conoscenze e oggi, quando lavoro con la struttura e la personalità, oltre che alla teoria del copione originariamente formulata da Eric Berne, utilizzo anche la psicologia degli enneatipi, la caratteriologia fondata sull’Enneagramma. In questa tradizione, che è sostanzialmente una via spirituale, l’attenzione all’ego è strettamente collegata alla meta del raggiungimento dello stato puro della mente, che viene chiamato Essenza. È proprio a partire dall’esplorazione dell’ego, il carattere che si è organizzato come derivato di stati emozionali e di nuclei cognitivi arcaici, che ci si può avvicinare alla conoscenza della natura della mente. La tradizione dell’Enneagramma viene dal Medio Oriente e si sviluppò in ambienti segreti. Gurdjieff, il primo che ne parlò in Occidente disse che l’Enneagramma era legato all’esoterismo del primo cristianesimo e che proveniva tra una tradizione sufi. Attribuiva all’ordine derviscio Naqshbandi la conoscenza di questo simbolo che rappresentava uno straordinario sapere connesso alla trasformazione delle energie.  Fu poi attraverso Oscar Ichazo che l’insegnamento arrivò a Claudio Naranjo, il quale elaborò una complessa e articolata riorganizzazione di quanto gli era stato trasmesso e lo fece in termini di una moderna psicologia, collegata allo sviluppo spirituale e alla pratica meditativa.

Il lavoro con l’Enneagramma si articola su diversi livelli a partire dall’individuazione del proprio carattere di base scelto tra le nove tipologie che corrispondono ai vertici della figura, ciascuna delle quali si suddivide in tre subpersonalità, che arricchiscono ulteriormente il panorama del carattere umano. L’individuazione del proprio tipo e il conseguente impegno di esplorazione insieme alla consapevolezza che si produce dall’osservazione della meccanicità e della ripetitività stereotipata del comportamento, apre la via verso un cammino che, per tappe successive, permette la conoscenza dello stato contemplativo. A un livello intermedio tra l’esercizio dell’autosservazione e la meta finale della contemplazione, si apprende a cambiare il proprio comportamento, coltivando stati mentali che facilitano lo sviluppo di attitudini virtuose, specifiche per ogni carattere. Quindi il complesso lavoro con l’Enneagramma si sviluppa essenzialmente su tre livelli.

In una prima fase si conosce l’ego, l’aspetto limitato della personalità premessa essenziale per ogni sviluppo ulteriore. La metodologia è basata sull’acquisizione di consapevolezze sempre più approfondite del proprio modo di funzionare, senza operare cambiamenti volontari, ma facilitando la conoscenza dei propri stati emozionali e dei nuclei cognitivi che formano il carattere.

A un livello successivo, invece, si tende a uscire dalle fissità strutturate assumendo compiti specifici rivolti a cambiare l’attitudine mentale e il comportamento stesso. Questo è possibile grazie all’utilizzo di vie che sono implicite in ogni struttura tipologica. Il carattere, infatti, da un lato rassicura e per certi versi ferma lo sviluppo, dall’altro contiene le indicazioni per produrre stati di salute psichica che, una volta conosciuti, rendono attivo il proprio cambiamento. A ogni carattere corrisponde quindi una virtù.

A un livello ancora più elevato di sviluppo ci si allena alla conoscenza degli stati superiori della mente attraverso il lavoro con particolari tipi di cognizioni chiamate idee sante. Quindi a partire dall’ego si raggiunge l’essenza attraverso lo stato meditativo.

 

Il contributo di Claudio Naranjo

L’ulteriore contributo apportato da Naranjo consiste nell’avere introdotto nella pratica le conoscenze del buddhismo tibetano, nelle sue diverse articolazioni che, a partire da modelli basati su tecniche provenienti dalla tradizione sutra, si sviluppa fino ad arrivare alla concezione dello atiyoga, nel quale la pratica, libera da supporti tecnici, procede direttamente verso l’autoliberazione.

Entrando nello specifico del primo livello dell’Enneagramma, quello che più si avvicina ai sistemi della moderna psicoterapia, esso comprende due mappe: l’una si riferisce al centro emozionale, l’altra al centro cognitivo della personalità. La prima viene definita Enneagramma delle passioni, la seconda Enneagramma delle fissazioni.

Ciascuno dei numeri e delle parole segnate sulla Fig. 1, con una definizione sintetica ed evocativa, indica una modalità emozionale, una coloritura appassionata e patologica di essere e comportarsi.

È una connotazione attraverso cui si identifica uno specifico tipo di personalità, con tratti che sono i derivati di una emozione che ha deviato dal suo stato naturale assumendo caratteristiche manipolative. Nell’analisi transazionale si parla di sentimenti parassiti che, avendo la loro carica motivazionale, diventano inefficaci al fine di raggiungere gli obiettivi naturali verso i quali le emozioni tendono.

Nel concetto di passione è insita una caratteristica in più: un’esagerazione emozionale che pervade l’esistenza. Si tratta di un attaccamento emotivo alle esperienze della vita prodotto da un’illusione del bambino, dall’idea che se lo fa di più otterrà il risultato. Nonostante l’escalation di impegno, paradossalmente il desiderio non viene soddisfatto. Negli stati più inconsapevoli, la mente resta annebbiata dalla passione, indulge in essa e sembra non poter concepire altra possibilità. Ma anche se la consapevolezza è maggiore e ci rendiamo conto dei modi in cui costruiamo gli impedimenti, è molto difficile uscire dalla meccanicità ripetitiva delle passioni.

Le nove tipologie sono: Ira, Orgoglio, Vanità, Invidia, Avarizia, Paura, Gola, Lussuria e Pigrizia. Sono parole di uso comune e già di per sé evocano significati. Nell’approfondimento dello specifico enneatipo al quale danno vita, questi nomi si riempiono di ulteriori contenuti che riflettono la complessità di un’intera organizzazione della persona, in questo caso rappresentata da tratti che si manifestano nel comportamento, aspetto funzionale e descrittivo del carattere.

Facendo riferimento a un esempio: chi è esigente verso se stesso e gli altri, con attitudine a correggere e ricorreggere, guidato da alti valori morali, preciso nel comportamento, tendente a dare e a seguire norme, impegnato a cercare riconoscimento per i suoi meriti – obiettivo per cui si sforza eccessivamente e paga spesso prezzi troppo alti rispetto ai risultati ottenuti – riducendo al minimo gli spazi dedicati e al piacere, questo tipo di persona, con vari livelli di intensità appartiene alla tipologia dell’Iroso, dove l’ira diventa un aspetto caratteriale più che l’espressione di un’emozione.

Le manifestazioni del carattere possono anche essere intese in termini di adattamento, effetto di processi decisionali che sono alla base della formazione del copione di vita, secondo il modello di lettura della personalità proposto dall’analisi transazionale.

 

L’Enneagramma delle fissazioni

All’Enneagramma delle passioni si affianca quello delle fissazioni. Con questo termine, differentemente che nella concezione freudiana, si intende che la personalità si è organizzata attorno a un nucleo fisso di idee e pensieri: interpretazioni distorte e generalizzate della realtà fenomenica. Il processo è ben conosciuto nella teoria dell’analisi transazionale che lega a nuclei cognitivi arcaici su se stessi, gli altri e la vita, l’irrazionalità degli adattamenti copionali. Il bambino matura convinzioni in base alle quali interpreterà e darà senso alle proprie esperienze che, in pratica, saranno guidate da idee pazze estremamente condizionanti. L’Enneagramma delle fissazioni si occupa della struttura e quindi dei contenuti del carattere.

Le nove fissazioni sono: Perfezionismo, Sovrabbondanza, Autoinganno, Sofferenza, Isolamento, Dubbio o Accusa, Ciarlataneria o Astuzia, Vendicatività e Iperadattamento. Anche qui, le parole usate per ogni enneatipo evocano sinteticamente un’intera organizzazione riferita, questa volta ai contenuti cognitivi della personalità.

Riporto un esempio relativo al tipo 4, Invidia-Sofferenza. Il tratto più evidente di coloro che hanno questo carattere è quelli di indulgere alla sofferenza anche quando non ce ne sarebbe motivo. Nella rappresentazione più tipica, la persona chiede attenzione lamentandosi, profondamente convinta di averne il diritto, e si sente incompresa quando l’altro, oggetto delle sue richieste, si sottrae rifiutando di farsi manipolare. Entra nella relazione con una forma di voracità aggressiva che mai si soddisfa, per cui soffre di carenza cronica, un angosciante vuoto interno che nessuno potrà mai riempire. E allora continua a reclamare senza neanche più sapere per cosa.

Il nucleo cognitivo su cui l’enneatipo 4 si è fissato contiene un’idea di base: “Dovrò soffrire per raggiungere la felicità”. È un’idea maturata a seguito di esperienze ripetitive e generalizzate nate da reazioni naturali, come quelle del bambino che quando ha fame e non viene nutrito piange. Se nonostante il pianto il cibo non arriva, piangerà ancora di più finché non gli verrà dato il buon latte caldo che finalmente lo riempirà dandogli un senso di beatitudine. Giorno dopo giorno, con il ripetersi dell’esperienza, si cristallizza l’idea pazza che bisogna soffrire prima di poter essere felici. Su questo nucleo cognitivo si organizzeranno i contenuti del carattere.

L’incompetenza interpretativa dei dati che entrano nel suo mondo e le influenze ambientali spingono il bambino a evidenziare, nell’ambito di una serie di stimoli, quelli legati alla sofferenza, alla quale associa vissuti autosvalutanti di non poter essere amato e di non essere voluto. A essi reagisce con un’illusione compensatoria: “Un giorno mi riscatterò e vi accorgerete di quanto valgo”. Queste conclusioni sono anche il risultato di specifiche relazioni oggettuali. Il bambino si allontana dal padre per sostenere la madre bisognosa e fragile, della quale, con una simbiosi all’inverso, paradossalmente si prende cura. “Se riuscirò a farla felice” sembra pensare. Il risultato finale è che i suoi bisogni vengono ancora meno soddisfatti ed emerge una personalità confusa tra forzata autosufficienza e necessità di riempire le proprie carenze. Gli è difficile stabilire quando è opportuna una scelta o l’altra e si muove con poca concretezza, svalutando e svalutandosi, alla continua ricerca di chi finalmente lo riempirà. Un giorno verrà il principe azzurro, sognano le ragazzine.

L’integrazione di fissazione e passione, degli aspetti strutturali e funzionali o, detto in altri termini, delle manifestazioni esterne e dei contenuti, costituisce complessivamente il carattere che si organizza attraverso una struttura cognitivo-decisionale e si manifesta nel comportamento con attitudini e tratti ricorrenti.

Possiamo quindi definire il carattere come una modalità ripetitiva e stereotipata di essere e comportarsi.

Come già sottolineato, è proprio a partire dalla conoscenza del tipo caratteriale, attraverso esercizi di autoesplorazione e consapevolezza, che si apre la via verso un cammino di crescita spirituale.

 

Enneagramma e meditazione

Ai livelli superiori dell’Enneagramma, si attivano consapevolezze sempre più approfondite della propria condizione, grazie all’utilizzo di posizioni meditative relative alle virtù ed alla contemplazione delle idee sante. Vengono inoltre integrate esperienze meditative che provengono dal buddhismo. In questa tradizione ci si riferisce a due veicoli principali: l’hinayana, o piccolo veicolo, e il mahayana, o grande veicolo. Al primo si associa la via della rinuncia o dei voti e al secondo quello della trasformazione e della compassione.

Esiste poi la via dell’autoliberazione, o del supremo perfezionamento, attraverso cui è possibile raggiungere in maniera diretta lo stato illuminato. Mi riferisco allo dzogchen che proviene da una tradizione che è stata trasmessa fino ai nostri giorni da un lignaggio non interrotto di Maestri. Si sviluppò particolarmente in Tibet ed ebbe tra i suoi più importanti diffusori Padmasambhava, il grande illuminato che visse nel IX secolo d.C. Nell’insegnamento dzogchen si parla di natura della mente, o di mente non condizionata. È uno stato di esistenza, non concepibile nel pensiero comune, al di là del dualismo, dei concetti e dei giudizi. Namkai Norbu Rimpoche, che di questo insegnamento è uno dei massimi rappresentanti, dice che lo dzogchen “non può essere considerato una religione e non chiede a nessuno di credere in niente. Piuttosto suggerisce all’individuo di osservare se stesso e di scoprire la propria condizione”.

Le funzioni dell’essere umano operano su tre livelli: il corpo, l’energia e la mente. Ci sono pratiche che, lavorando su ciascuna di queste, hanno la capacità di modificare la nostra esperienza globale, da quella di tensione e confusione a quella di saggezza e vera libertà.

Uno stato, quindi, che si raggiunge con la meditazione e continuando in questa esperienza si stabilizza. Ma la stessa meditazione può diventare un limite, in quanto legata ad un fare, mentre lo stato della mente pura è al di là di ogni sforzo e di ogni azione.

Nell’insegnamento buddhista si utilizza il simbolo per facilitare la comprensione del discepolo che ancora non conosce l’esperienza contemplativa. Lo stato primordiale dell’essere è puro fin dal principio, con niente da respingere e niente da accettare, al di là di ogni concetto. Se ne può intendere il senso con una metafora: la natura della mente è come lo spazio che tutto contiene, perché non ci sono limiti né confini. Un’altra maniera di intenderla e di paragonarla allo specchio, il melon, che non viene disturbato dal fenomeni in quanto si limita a rifletterli. Qualsiasi cosa lo specchio rifletta non ne viene condizionato lo stato. Nella sua natura non c’è distinzione tra bello e brutto, buono e cattivo, ma tutto è accolto senza giudizio.

Allo stesso modo, la mente pura non è turbata dal tipo di esperienze vissute né può essere definita, perché è al di là di ogni limite e ogni descrizione. Se ci chiediamo dov’è la mente non sappiamo dirlo, eppure è, esiste nella pura presenza.

A differenza che nello zen, nel quale la via è basata soprattutto sulla pratica della concentrazione per favorire la vacuità, nello dzogchen vuoto e movimento hanno lo stesso valore.

Per questa ragione non vanno evitati il pensiero e l’esperienza dei sensi, in quanto si autoliberano attraverso la presenza istantanea. La meta è di portare la pratica contemplativa nella vita quotidiana, senza rinunciare, come avviene ad esempio in altre tradizioni nelle quali si utilizzano i voti per liberarsi da attaccamenti condizionanti. Piuttosto viene suggerito di vivere con consapevolezza, cioè con piena presenza, le proprie esperienze .

Importante corollario per la crescita spirituale è la pratica della impermanenza. Tendiamo a dimenticare che la nostra vita è limitata nel tempo e ci comportiamo come se durasse in eterno. In realtà mentre ancora coltiviamo pensieri di bambini siamo già vecchi, non ci rendiamo conto di quanto rapidamente trascorre la nostra esistenza. “La vita ha la durata di un lampo nel cielo”, dicono i Maestri e questo va compreso profondamente. Solo così possiamo raggiungere il distacco che ci permette uno stato di calma e di consapevolezza. È necessario rendersi conto di come ogni cosa sia effimera.

Un Maestro dzogchen al quale fu chiesto cosa avrebbe potuto insegnare in maniera molto sintetica, rispose: “Non perdere tempo. Sfrutta ogni momento per praticare perché la vita finisce prima ancora che ce ne rendiamo conto”. Invece passano gli anni, mentre ci dibattiamo tra ansie di perfezionismo, rituali ossessivi, fobie, orgoglio smisurato, fame di attenzione, ritiro asociale, aggressività prepotente, vanità improduttiva, stati di torpore della coscienza, rifugio nella fantasia e nelle illusioni, e questi fenomeni durano la vita intera.

Ma cosa succede se penso sul serio che la mia vita è come la fiammella di una candela nel vento e non si sa quando si spegne? Conviene fare del proprio meglio per non sprecare la condizione privilegiata che ha l’essere umano per raggiungere la propria realizzazione. Ma anche senza arrivare così lontano, dedicarsi alla pratica meditativa è certo di grande aiuto per vivere in maniera meno tormentata e con minore passione e attaccamento la nostra esistenza.

Se spostiamo l’attenzione da noi stessi e la rivolgiamo maggiormente verso gli altri, apprendiamo a esercitare la compassione che nello dzogchen, come in tutto il buddhismo di tradizione mahayana, è considerata un fattore di grande rilievo. Nel cristianesimo fu l’attenzione all’amore per l’altro che fece la differenza tra Antico e Nuovo Testamento, così come avvenne tra hinayana e mahayana. Il bodhisattva, colui che è sulla via, prende l’impegno di aiutare tutti gli esseri fino alla loro realizzazione suprema, anche rinunciando alla propria illuminazione e a costo, a volte, della sua stessa vita.

L’esercizio della compassione si può anche sperimentare con tecniche psicoterapeutiche. In Gestalt è molto importante la relazione io-tu e Perls ha ideato numerosi esercizi di contatto, mentre Naranjo si è focalizzato soprattutto sulla meditazione a coppie al fine di stabilire l’incontro tra essenza ed essenza, al di là delle limitazioni egoiche. L’applicazione della tecnica meditativa priva di compassione può diventare un mero esercizio, arido e improduttivo.

Agli eterni insoddisfatti, coloro che avidi di amore non si rendono conto di quanto siano insaziabili, la pratica dell’Enneagramma insegna che il loro è uno specifico  carattere organizzatosi con un tipo particolare di ego e che al fondo, pur sembrando carenti, non per questo il loro bisogno d’amore e la loro sofferenza sono superiori a quella di altre tipologie. Sono soltanto più manipolativi e a volte più teatrali nei modi della loro richiesta. Mettersi in un’attitudine più equanime e guardare l’altro come un essere che soffre al pari di noi, può aprire il cuore alla comprensione che prepara all’amore e sollecita alla solidarietà umana.